L’altro giorno sono rientrato in
oratorio e ho incontrato il gruppo di ragazzi di prima superiore con i loro
educatori che si erano trovati a fare una serata insieme per vedere un film, a
metà tempo si erano fermati e stavano mangiando la pizza per poi riprenderne la
visione, si sentiva però da alcuni che il film non era molto apprezzato. Gli
educatori erano un po’ dispiaciuti di questo, ci avevano messo tanto impegno
per organizzare la serata, avevano addirittura telefonato all’ufficio Caritas
per un consiglio riguardo un bel film sul “servizio” che aiutasse a introdurre
l’esperienza estiva che avrebbero passato con i ragazzi al Sermig. Una domanda
nasce spontanea: da dove il rischio che la proposta non funzioni nonostante
l’impegno, il consiglio della Caritas e l’indubbio valore del film in sé?
Ahimè qua scatta un cortocircuito
in noi generazione adulta, o cresciuta in un altro “mondo”; non è sufficiente
annunciare, presentare, far sperimentare… qualcosa di vero in sé perché tutto
vada a posto e funzioni; forse in passato poteva essere così, ma ora non più.
Non è sufficiente solo orientarsi su quanto è vero e importante in sé, questo
bisogna farlo, ma anche chiedendosi se la verità, il messaggio che presento sia
colto come significativo per coloro a cui lo porto, questa non è una cosa
scontata né tantomeno automatica.
Mi preoccupa una pastorale
orientata solo ad annunciare il vero senza chiedersi se questo venga
sperimentato anche come bello oltre che in sé anche per me, una pastorale fatta
di tante parole vere, ricca di Parola di Dio e di insegnamento della Chiesa ma
che non riflette sul fatto che non bastano parole vere ma è richiesto ciò che
tocca la vita di chi abbiamo davanti, una pastorale che propone esperienza
forti ricche di valori ma che non si chiede come queste possano incontrare la
vita dei destinatari perché non siano solo esperienze vere ma soprattutto esperienze
che danno vita.
Credo allora che ci venga chiesto
una grande conversione, è la conversione dell’entrare nella logica
dell’incarnazione, di Dio che vive in sé l’esigenza di farsi uomo per essere
realmente vicino e significativo per le persone e quindi solo così vero al
cento per cento.
Come Gesù che aveva una parola non
solo vera, ma anche significativa per ciascuno di coloro che incontrava, non
proponeva un insegnamento generico e teorico ma che nasceva dall’incontro tra
il mistero e la persona: alla samaritana che incontra al pozzo gli offre
quell’acqua che veramente cercava e non una bella parabola di cui ora non aveva
bisogno, con la gente che lo segue ormai stanca condivide-moltiplica il pane e
non fa loro una bella omelia o una veglia di preghiera, ai dieci lebbrosi che
gli si avvicinano dona la guarigione non dà loro da mangiare… e così potrei
continuare. Ognuno ha bisogno di incontrare Gesù nel vangelo, ma attraverso una
parola che sia bella per la sua vita ora, una parola interessante, vicina,
sperimentata come propria.
Lo so non è semplice, ci chiede
di conoscere bene i nostri ragazzi, di entrare in sintonia con loro, di
lasciarsi potare e mettere in discussione, di accettare che come educatori
abbiamo ancora tanto da imparare, che la Parola non ci appartiene e non
possiamo usarla come ci pare e che non è come una formula magica che basta
pronunciare perché funzioni. Come fare allora? Non voglio essere frainteso in
una conclusione che può sembrare scontata o sentimentale, ma occorre voler bene
ai ragazzi, volere il loro bene e non voler bene al mio successo, al mio
progetto, alla mia ricetta di verità, a ciò che piace a me, a ciò che per me
conta. Occorre voler loro bene, accoglierli in tutto quello di cui sono
portatori anche se a me non va bene, dar loro sempre e nuove opportunità,
fidarsi anche quando tutto dice il contrario… non ho abbastanza parole o esempi
per spiegarlo, ma credo che ogni educatore che ha a cuore i propri ragazzi
abbia pienamente capito cosa intendo.
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