Mi capita spesso come prete
impegnato in particolare nella pastorale giovanile, di incontrare persone che
mi parlano di “emergenza” educativa, io preferisco parlare di SFIDA; forse la
differenza sta tra chi rimpiange i tempi del passato e chi invece tutto sommato
è felice o meglio ancora speranzoso nel guardare avanti. Credo che “emergenza”
dica una situazione che vorremmo vedere risolta in un certo modo e che invece sta
andando in una direzioni opposta fuori dal nostro controllo, mentre
“sfida” ci invita maggiormente a
cogliere i segni di novità presenti guardando ad essi come contributo e provocazione.
Da questo dovrebbe sorgere il desiderio come Chiesa di metterci in ascolto di
quelli che il Concilio Vaticano II nella Gaudium
et spes ci indica come segni dei tempi: “Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di
scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che,
in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi
degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni
reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le
sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico”. (GS
4)
In questo contesto non credo che
valga la pena concentrare troppe energie solo su esperienze straordinarie,
quasi entrando in concorrenza per “urlare” più forte dei tanti ammaliatori oggi
in circolazione; ciò che invece dovrebbe distinguerci potrebbe essere il
rivedere la qualità dei nostri cammini educativi, attraverso un impegno che ci
chiede, come è successo in passato in altri ambiti della vita della Chiesa, di
ridare nuova forza e speranza. Insomma, riprendere in mano la via
dell’educazione e nello stesso tempo reinventarla e incarnarla nella cultura odierna,
sapendo far tesoro di tutti i contributi positivi di cui essa può essere portatrice.
Da prete raccolgo innanzitutto
una sfida pastorale: fare dell’educazione non solo un luogo di maturazione umana,
ma anche spazio di proposta esplicita di Gesù invitando ad una sua vivente accoglienza, mostrando in ciò la fondamentale
radice della nostra felicità e salvezza. Per questo, insieme al ruolo
indispensabile che la comunità ha di testimoniare una fede vissuta
concretamente, occorre fare proposte invitando a fare delle esperienze che
narrino la verità e la concretezza di quello che annunciamo.
Credo che occorra metterci molto
in ascolto dei giovani e mettere in conto che forse non sono loro a dover
cambiare ma piuttosto noi, in fondo la crisi che tanto paventiamo forse non è
la loro ma la nostra, credo ci sia richiesto una grande umiltà nel riconoscerlo.
Concludendo ci tengo a
condividere con voi la lezione che ho imparato da due interventi che un ragazzo
di seconda media e una ragazza di terza media della mia parrocchia mi hanno
amichevolmente consegnato; il primo mi ha mostrato la grande responsabilità dell’impegno
che dobbiamo mettere per testimoniare alle nuove generazioni in modo sensato e
comprensibile, quel ragazzo mi diceva: “don
noi non rifiutiamo quello che ci dite, ma così come ce lo spiegate non lo
capiamo e lo sentiamo lontano, dovete dircelo in modo più bello e divertente…”,
ha proprio ragione il Vangelo se vuole essere buona notizia deve anche essere bello
concretamente e sperimentabile come tale; la ragazza di terza media mi suggeriva
di “parlare di qualcosa che ci faccia
stupire, qualcosa che non sappiamo e che ci faccia dimenticare quello che
avevamo da dire al vicino, una cosa più interessante dei cellulari, che ci
faccia guardare oltre Novellara”, questo mi invita a riproporre Gesù non
come un “minestrone riscaldato”, ma rinnovando il mio annuncio come capace non
tanto di dare risposte ma di aprire orizzonti di stupore e strade per il cielo.
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