giovedì 31 ottobre 2013

Un percorso fatto di scelte

Veniamo da un passato dove tante cose era chiare e ben strutturate, tutto sembra funzionare, bastava stare in mezzo ai giovani ed eravamo a posto. Se le cose andavano male non era colpa nostra e si tendeva a scaricare le responsabilità o sui giovani o sulla società. Io sono un giovane prete e questo periodo non me lo ricordo, ma me lo sento raccontare, ora invece viviamo in una situazione dove tutto si è un po’ rovesciato; capita infatti di scontrarsi con una situazione giovanile non sempre chiara e con iniziative che a volte lasciano un po’ il tempo che trovano.
Data ormai per scontata la realtà multiforme della vita dei giovani di oggi calata all’interno di una società ormai pluralista, credo che la prima cosa da fare sia prendere una posizione e scegliere una prospettiva sulla quale incamminarsi per evitare la dispersione di forze e risorse che rincorrano un po’ a caso le emergenze che via via si rendono presenti, un primo passo tutt’altro che semplice visto che scegliere una posizione corrisponde poi a lasciare le altre e accettare il rischio anche di prendere l’opzione sbagliata, ma credo che la cosa sia ormai inevitabile e il rischio sia da correre.

martedì 22 ottobre 2013

Esperienze per campi estivi

Educazione attiva ai valori dell’intercultura e del dialogo interreligioso. Cammino quotidiano di giovani per un’educazione alla Pace, alla Giustizia, alla gratuità, alla cooperazione in un orizzonte d’universalità.
Ristrutturazione del Centro Giovanile Internazionale "Agimi Eurogiovani", Centro di coordinamento del volontariato a favore dei profughi e dei richiedenti asilo politico.
Ogni campo-lavoro non può durare meno di una settimana dal lunedì alla domenica o dal sabato al sabato.

Comunità ecumenica che accoglie d’estate un numero enorme di giovani provenienti da tutto il mondo, si partecipa alla vita di lavoro e di preghiera della comunità nonché agli incontri che vengono proposti.

Proponiamo week-end e settimane di formazione per permettere ai giovani di condividere la vita della Fraternità del Sermig. Laboratori esperienziali e di approfondimento su mondialità e restituzione, accoglienza, pace e Giovani della Pace, spiritualità e Sacra Scrittura, musica e canto. I laboratori sono un momento di confronto e di crescita a partire dall’esperienza dell’Arsenale della Pace e dei giovani che vi partecipano. Lavoro manuale volto ad aiutare le persone che accogliamo(preparazione del materiale per i carichi umanitari, pulizia delle accoglienze)e a completare la ristrutturazione dell'Arsenale. Momenti di spiritualità: ricerca delle motivazioni alla fede, esperienza di silenzio, riscoperta della preghiera liturgica.

lunedì 21 ottobre 2013

L’educatore secondo Benedetto XVI

Il Discorso è riportato in parte e fa riferimento all'incontro con i ragazzi e i giovanissimi dell’AC in p.za S.Pietro, sabato 30 ottobre 2010

Direi che essere educatori significa avere una gioia nel cuore e comunicarla a tutti per rendere bella e buona la vita; significa offrire ragioni e traguardi per il cammino della vita… “Cristiani si diventa, non si nasce” (Tertulliano, Apologetico, 18,4). La vita cristiana ha una profonda dimensione propriamente educativa. Nel Vangelo di Marco si racconta di un GESÙ EDUCATORE: “Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnar loro molte cose…prese i cinque pani e i due pesci […] spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro” (Mc, 6, 34-41). […] Gesù non scorge una folla anonima, bensì persone […]. Gesù vede in loro un popolo che soffre per la mancanza di una guida autorevole o è disorientato da maestri inaffidabili. […].L’insegnamento del Maestro trova compimento nel dono della sua esistenza: Gesù è la parola che illumina e il pane che nutre, è l’amore che educa e forma al dono della propria vita.

Gruppi ma non solo

Da alcuni anni abbiamo stabilizzato la pastorale sulla formazione di gruppi animati da educatori senza accorgerci che abbiamo relegato il vangelo a recinti sacri, a luoghi sicuri, a condizioni talora impossibili. Senza accorgerci lo abbiamo fatto diventare un premio per i buoni piuttosto che una speranza per tutti, una offerta a chi lo merita piuttosto che un dono gratuito, una consolazione per chi ne sa parlare, piuttosto che una luce per chi cerca senza saperlo. Abbiamo offerto il vangelo solo a chi ci avrebbe offerto la garanzia di venire dalla nostra parte, entro i nostri schemi, le nostre mura e non tra le braccia di un Padre.
A un gruppo di ragazzi del muretto, a giovani di una squadra di calcio, a ragazzi che vanno in discoteca, ad adolescenti che si cimentano in avventure impossibili, a giovani che fanno le ore piccole a mettere assieme una band musicale sembra uno spreco offrire il vangelo, certo a livello di principio nessuno lo direbbe, ma allora perché poi nessuno lo fa? Abbiamo già deciso noi che per loro il vangelo ha niente da dire, perché non riusciamo a immaginarne la forza dirompente, perché non viene collocato entro i nostri modelli culturali o comportamentali. Invece non è una ideologia, nè una parola che si consuma, ma una vita che sconvolge.

Cosa conta veramente nella vita?

“Okay. Tutto mi dice di essere forte, determinato negli scopi, capace di andare avanti nella Vita, ma se uno sente che è arrivato il momento di cambiare un po’ rotta o anche solo il bisogno di fermarsi a ragionare sul serio per proprio conto? Voglio dire: e i caz.. di sette e mezzo in latino, per esempio, che da semplici strumenti sono diventati una specie di fine ultimo?... Insomma, a quanto ne so dovrei studiare per strappare un titolo di studio che a sua volta mi permetta di strappare un buon lavoro che a sua volta mi consenta di strappare abbastanza soldi per strappare una qualche cavolo di serenità tutta guerreggiata e ferita e massacrata dagli sforzi inauditi per raggiungerla. Cioè, uno dei fini ultimi è questa cavolo di serenità martoriata. Il ragionamento è così. Non ci vuole un genio. E allora, perché dovrei sacrificare i momenti di serenità che mi vengono incontro spontaneamente lungo la strada? Perché dovrei buttarli in un pozzo, se fanno parte anche loro del fine a cui tendere? Se un pomeriggio posso andare a suonare o uscire con una ragazza che mi piace, perché cavolo devo starmene in casa a trascrivere le versioni dal traduttore o far finta di leggere il sunto di filosofia? La realtà è che mi trovo costretto a sacrificare il me diciassettenne felice di oggi pomeriggio a un eventuale me stesso calvo e sovrappeso, cinquantenne soddisfatto, che apre la porta del garage col comando a distanza e dentro c’ha una bella macchina, una moglie che probabilmente gli fa le corna col commercialista e due figli gemelli con i capelli a caschetto identici in tutto ai bambini nazisti della kinders. Tutti dentro il garage, magari, no. Diciamo più o meno intorno. Cioè circondato. Dunque la domanda è: un orrore di queste proporzioni vale più del sole e del gelato di oggi pomeriggio? Più di una qualunque ragazza? Più di Valentina che arrivava sorridendo all’appuntamento con dieci minuti di ritardo e una maglietta blu con dentro quel ben di Dio sorprendente?”.  (Jack Frusciante è uscito dal gruppo)

sabato 19 ottobre 2013

Amare è servire... servire è regnare



CANTO: Gen Verde – Servire è regnare

Guardiamo a Te che sei Maestro e Signore:
chinato a terra stai, ci mostri che l'amore
è cingersi il grembiule, sapersi inginocchiare,
c'insegni che amare è servire.

Rit: Fa' che impariamo, Signore, da Te,
che il più grande è chi più sa servire,
chi si abbassa e chi si sa piegare
perché grande è soltanto l'amore.

E ti vediamo poi, Maestro e Signore,
che lavi i piedi a noi che siamo tue creature;
e cinto del grembiule, che è il manto tuo regale,
c'insegni che servire è regnare. Rit.

Educare non è un lavoro ma un modo di vivere

«L’educatore è un individuo consacrato al bene dei suoi allievi, perciò deve essere pronto ad affrontare ogni disturbo, ogni fatica per conseguire il suo fine, che è la civile, morale, scientifica educazione dei suoi allievi» (don Bosco).
Fare l’educatore non è un lavoro, diventa un vero e proprio modo di vivere che ha la conseguenza non di produrre dei beni ma di costruire persone. Per questo gli vengono chieste non solo capacità per saper realizzare un buon incontro e delle belle attività, ma la comprensione di una identità precisa che lo porta a crescere nel saper “essere per” chi gli è affidato.

Videolezioni di pastorale giovanile - don Riccardo Tonelli

Videolezioni di pastorale giovanile fatte da don Riccardo Tonelli, sacerdote salesiano, pietra miliare e iniziatore della riflessione riguardo a questo tema. Un ricordo particolare per lui visto che recentemente ha raggiunto, dopo tanti anni di servizio, la casa del Padre.
Ecco come vengono presentate nell'introduzione del sito di "Note di pastorale giovanile":
Ecco una rubrica decisamente nuova e che speriamo incontri i desideri e attese dei nostri frequentatori e lettori: le lezioni di pastorale giovanile tenute da don Riccardo Tonelli, Ordinario di pastorale giovanile all'Università Salesiana di Roma. Sei puntate in dieci video che percorreranno in maniera sistematica la proposta (una possibile proposta) di educazione dei giovani alla fede. La novità di questa rubrica è l'offerta di video e di slides che rendono maggiormente visibili le schede commentate. Su NPG altre schede che accompagnano le lezioni e ne permettono una ripresa anche "didattica".

Videolezioni

venerdì 18 ottobre 2013

MICHEL QUOIST: Parlami d’amore - Introduzione

Avevo vent’anni... oppure venticinque, o più, o meno... Non importa! Volevo vivere ma non sapevo per che cosa vivere, né come vivere. Cercavo. Cercavo fino all'angoscia, sbattendo contro i miraggi dei miei deserti.

Avevo fame.
Il mio corpo aveva fame. La mia carne viva, come milioni di bocche folli, cercava di divorare fin le più piccole briciole di piacere raccolte ai margini della mia strada.
Il mio spirito aveva fame. Per nutrirlo, raccoglievo alla rinfusa tutte le idee che vagavano nei libri, nelle immagini, nelle parole sulle bocche degli uomini, ma la mia testa era un alveare ronzante che non dava miele.
Talvolta, un po' più in là in quella povera testa, dove — lo presentivo — finisce la terra e comincia un altro universo, qualche raggio di sole illuminava la mia notte, ma subito le nuvole venivano a cancellare la luce.
Mi restava il sogno. Mi portava molto lontano...

Il punto di vista


Tratto da "L'attimo fuggente" di Peter Weir 1989
A volte risulta necessario guardare il mondo da vari punti di vista, così si nota che il mondo appare diverso… questo mondo sembra senza Dio perché spesso lo guardiamo dal punto di vista sbagliato… uno sguardo spirituale, concreto, reale, solo esso ce lo mostra veramente… e tutto sembra diverso eppure è lo stesso di prima.
Molti uomini hanno vita di quieta disperazione: aver cura della profondità della propria vita proprio per non rassegnarsi a questo, osare cambiare cercare nuove strade.

Vita Spirituale/3: Una spiritualità a pozzo

L’uomo è fatto di materiale creato nei primi cinque giorni e su questo il sesto giorno è arrivato il “soffio” di Dio, così l’uomo è miscela di questo soffio e della materia dei primi 5 giorni. Con il tempo l’uomo si è sempre più concentrato su ciò che ha avuto a che fare con i primi 5 giorni della creazione mentre il soffio lo abbiamo abbandonato, nessuno pensa che esiste uno spirito oggettivamente presente e così facendo la spiritualità diventa solo moralismo. In passato si riteneva che era molto più la distanza tra il verme e l’uomo che tra l’uomo e Dio, adesso è il contrario, ci sentiamo più vicini al verme che a Dio.

Vita Spirituale/2: un corpo a corpo con Dio

La vita spirituale è lotta e percorso.
Gn 32,25 Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora. 26 Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all'articolazione del femore e l'articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. 27 Quegli disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l'aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». 28 Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». 29 Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». 30 Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. 31 Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel «Perché - disse - ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva».
Giacobbe per un’intera notte, con  tutte  le  sue  forze,  combatte fisicamente con Dio, esce  da  questa  lotta  segnato  nella  carne,  con  un  nome nuovo e dopo aver strappato a Dio la sua benedizione. Così è spesso anche la nostra vita spirituale, a volte ci sembra una lunga notte di combattimento, da affrontare come Giacobbe senza arrendersi; chiede che venga messo in campo tutto di Dio, riconoscendo che a volte addirittura nella carne possiamo portare i segni della vita che abbiamo scelto; questa vita vera ci dona la nostra vera identità, un “nome nuovo” che ci svela il progetto di Dio su di noi e che ci dona la sua benedizione.

Vita Spirituale/1: b x h

Spirituale è tutt’altro che qualcosa di immateriale o astratto, non c’è niente di più concreto. Esiste una formula matematica della Vita Spirituale. Vi chiederete quale è e dove sta scritta. Semplice! In ogni libro di matematica per le elementari, è quella di un rettangolo: base per altezza.
Per capirlo vi chiedo il piacere di prendere biro e foglio e disegnate un rettangolo, avercelo sottocchio è necessario perché solo ora possiamo vederne l’area che rappresenta la nostra interiorità; per ricavarla occorre dargli una base e poi dare altezza a quest’ultima. Non esiste Vita Spirituale senza una base e se non gli diamo altezza.

La sfida educativa

Mi capita spesso come prete impegnato in particolare nella pastorale giovanile, di incontrare persone che mi parlano di “emergenza” educativa, io preferisco parlare di SFIDA; forse la differenza sta tra chi rimpiange i tempi del passato e chi invece tutto sommato è felice o meglio ancora speranzoso nel guardare avanti. Credo che “emergenza” dica una situazione che vorremmo vedere risolta in un certo modo e che invece sta andando in una direzioni opposta fuori dal nostro controllo, mentre “sfida”  ci invita maggiormente a cogliere i segni di novità presenti guardando ad essi come contributo e provocazione. Da questo dovrebbe sorgere il desiderio come Chiesa di metterci in ascolto di quelli che il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes ci indica come segni dei tempi: “Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico”. (GS 4)

Verità e Significatività

L’altro giorno sono rientrato in oratorio e ho incontrato il gruppo di ragazzi di prima superiore con i loro educatori che si erano trovati a fare una serata insieme per vedere un film, a metà tempo si erano fermati e stavano mangiando la pizza per poi riprenderne la visione, si sentiva però da alcuni che il film non era molto apprezzato. Gli educatori erano un po’ dispiaciuti di questo, ci avevano messo tanto impegno per organizzare la serata, avevano addirittura telefonato all’ufficio Caritas per un consiglio riguardo un bel film sul “servizio” che aiutasse a introdurre l’esperienza estiva che avrebbero passato con i ragazzi al Sermig. Una domanda nasce spontanea: da dove il rischio che la proposta non funzioni nonostante l’impegno, il consiglio della Caritas e l’indubbio valore del film in sé?
Ahimè qua scatta un cortocircuito in noi generazione adulta, o cresciuta in un altro “mondo”; non è sufficiente annunciare, presentare, far sperimentare… qualcosa di vero in sé perché tutto vada a posto e funzioni; forse in passato poteva essere così, ma ora non più. Non è sufficiente solo orientarsi su quanto è vero e importante in sé, questo bisogna farlo, ma anche chiedendosi se la verità, il messaggio che presento sia colto come significativo per coloro a cui lo porto, questa non è una cosa scontata né tantomeno automatica.

Una crisi di evangelizzazione degli adulti non dei giovani

I giovani non credo più come una volta? Credo che la risposta ci chieda di fare un passo indietro, ritengo che la vera questione si giochi in quanto la fede degli adulti sia o meno in crisi, in quanto essi vivano o meno una logica di evangelizzazione. Troppo spesso e in modo sbrigativo si preferisce prendere i giovani come capro espiatorio della crisi della fede, dipingendo la loro vita piena di ombre, non nego che di problemi aperti ce ne siano, ma credo che questa eccessiva concentrazione rischi di distrarci anche da un altro aspetto.
Credo che i giovani siano ancora decisamente propensi a interrogarsi su Dio, in tanti miei incontri noto che ci si gioca sopra una questione importante della propria vita, certo hanno maggiori difficoltà oggettive rispetto a chi li ha preceduti, ciò mi sembra normale visto il cambiamento sociale e culturale del tempo nel quale vivono. Capita oggi che Gesù e una certa pratica religiosa debbano fare a gara con un modo di vivere un po’ improvvisato e centrato molto sull’individuo, questo sicuramente viene facilitato da situazioni di solitudine e di disagio che vivono le nuove generazioni. Inoltre capita di incontrare parrocchie sempre più grandi, articolate, piene di iniziative, ma non sempre capaci di essere accoglienti nel dare ascolto al desiderio di ricerca che è presente nei giovani; da qui il rischio che questo attecchisca in qualche forma di spiritualità discutibile ma capace di offrire un servizio personalizzato e rapido.
Da qui la domanda necessaria: cosa stiamo facendo noi comunità adulta per evitare ciò? Qui emerge la questione della evangelizzazione degli adulti, spesso poco attivi e poco testimoni di un Vangelo ormai messo nel cassetto per pensare invece secondo loro alle cose che veramente contano e che porta a pensare che in fin dei conti non sia così necessario parlare di Dio ai giovani, alcuni invece ancora ci credono ma si scoprono incapaci a instaurare una relazione che possa facilitare ciò.
E i giovani? Sono lì desiderosi e bisognosi di una parola di Vangelo, di una Parola di Dio. Credo occorra riscoprire alcune dinamiche proprie delle prime comunità cristiane che erano capaci di affascinare, incuriosire, attrarre..; riscoprire un entusiasmo nel Vangelo che è stata e rimane bella notizia, e mostrarne la bellezza.

Una sfida: accettare il percorso dell’autonomia


Tante volte mi capita di sentire una frase che torna spesso tra gli operatori che si occupano della formazione delle nuove generazioni: “La Cresima è il sacramento dell’abbandono”; la sento detta a volte con delusione, a volte con passione e desiderio che non sia così. Credo che occorra confrontarsi in modo sereno con la realtà della nostra situazione nella quale il modello di catechesi che normalmente pensiamo e abbiamo in testa è di tipo lineare e continuativo; questo modello fa fatica a mettere in conto salti e cambiamenti e pensa non siano coerenti con la proposta educativa che facciamo le rotture, le separazioni, gli allontanamenti dei nostri ragazzi; tutto questo porta a vivere in tanti operatori veri e propri momenti di lutto e sconfitta.

Riflettendo sui cammini educativi

L’esperienza di tante comunità mostra che capita spesso che alcuni gruppi di ragazzi arrivino con entusiasmo al momento della Cresima per poi lasciare pian piano, o in altri casi di gruppi di giovani che continuano a camminare, ma che poi lentamente mollano.
Guardando avanti, credo che i giovani perderanno (o forse hanno già perso) l’abitudine delle precedenti generazioni di venire in Chiesa per routine, per tradizione, per dovere o per paura; se verranno lo faranno perché ne avranno “voglia”, cioè se veramente l’ambiente, i rapporti, le attività, la liturgia, l’organizzazione, l’immagine, ecc. delle nostre comunità ecclesiali li interessano e li arricchiranno. Senza offese a nessuno, penso che sia normale che facciano fatica a sentire il desiderio di far diventare casa propria un gruppo di gente anziana, che utilizza un linguaggio strano, che ha delle strutture che vedono come rigide, delle attività poco divertenti e delle proposte non legate al loro sviluppo anche umano. L’impegno qualitativo che dovrebbero mantenere le nostre comunità è quello di offrire uno spazio in cui sperimentare realtà alternative a quelle vissute in altri luoghi, diverse in quanto a qualità, fecondità e pienezza; ad esempio: la fraternità, la solidarietà, l’incontro con Dio, il sentirsi utili e amati…

lunedì 14 ottobre 2013

Cari catechisti, Dio è creativo

Alcune parti del discorso di papa Francesco ai partecipanti al congresso internazionale sulla catechesi

Aiutare i bambini, i ragazzi, i giovani, gli adulti a conoscere e ad amare sempre di più il Signore è una delle avventure educative più belle, si costruisce la Chiesa! “Essere” catechisti!
Badate bene, non ho detto “fare” i catechisti, ma “esserlo”, perché coinvolge la vita. Si guida all’incontro con Gesù con le parole e con la vita, con la testimonianza. Ricordatevi quello che Benedetto XVI ci ha detto: “La Chiesa non cresce per proselitismo. Cresce per attrazione”. E quello che attrae è la testimonianza. Essere catechista significa dare testimonianza della fede; essere coerente nella propria vita. E questo non è facile. Non è facile! Noi aiutiamo, noi guidiamo all’incontro con Gesù con le parole e con la vita, con la testimonianza. A me piace ricordare quello che san Francesco di Assisi diceva ai suoi frati: “Predicate sempre il Vangelo e, se fosse necessario, anche con le parole”. Le parole vengono… ma prima la testimonianza: che la gente veda nella nostra vita il Vangelo, possa leggere il Vangelo.

L’educazione è “cosa del cuore”

Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne mette in mano le chiavi. (don Bosco)
Sono stato provocato in questi giorni a riflettere sul perché della mia dedizione al servizio dei più giovani, cosa porta me e ogni educatore a prendersi cura di ragazzi che non scegliamo, ma che ci vengono affidati; perché continuare a volte nonostante le delusioni, i guai e i problemi che ne seguono: chi ce lo fa fare? Ho trovato solo una risposta: vale la pena continuare perché li amo, voglio il loro bene, mi stanno a cuore; questo precede il loro essere o meno vicini ad alcuni standard di vita umana e religiosa che la società o la mia testa prevedono. La nostra vocazione educativa di servizio al mistero scritto nella vita di ogni ragazzo mi chiede di non arrendermi se davanti al mio impegno rimangono indifferenti e occupati in altre cose.

mercoledì 9 ottobre 2013

Tanti termini, ma un unico compito: educare

Nel compito educativo al quale sono chiamate le nostre comunità rientrano varie forme di terminologie a cui segue poi uno stile nell’agire pastorale. Una delle più diffuse nell’uso comune del nostro linguaggio ecclesiastico è il termine “catechesi” che di per sé viene inteso come “insegnamento”, usato in questo senso credo che non rappresenti veramente il compito al quale siamo chiamati nei confronti delle nuove generazioni, l’attività pastorale pur dovendo prevedere questo momento non può limitarsi solo ad esso, e tantomeno far sì che si identifichi con la semplice trasmissione di notizie.
Altro termine che ricorre frequentemente nei nostri ambienti è quello di “formazione”, questo approccio portato agli estremi vede nei giovani un qualcosa senza forma che deve ricevere un qualche modo di essere, ciò avviene attraverso un esperto che con il suo impegno plasma un’opera che di per sé vede bianca, così facendo il rischio diventa quello di non considerare il cammino e la bellezza già presenti nel giovane dimenticandosi così che la crescita nella vita e nella fede assume più l’aspetto di una autoformazione dove chi è destinatario lo è attivamente e non passivamente, cioè il soggetto principale è colui al quale ci rivolgiamo e il compito di chi lo segue si esprime come accompagnamento.

Qual è la fonte della nostra gioia di educatori?

Mi è capitato tante volte di chiedermi quale sia la fonte della gioia, della felicità, di quanti svolgono un ruolo educativo, in particolare di chi segue gruppi di ragazzi e di giovani; una domanda che non sta per aria ma che si nutre del mio vissuto e dell’incontro con tanti educatori nell’aiutarli a gioire del proprio servizio all’interno di un’opera che non sempre è semplice.
Tante volte il confronto su questo si sposta velocemente alla situazione concreta che si vive, cioè guardando alle belle esperienze, al successo con i ragazzi, agli incontri popolati, al servire i piccoli, a che tutto vada come avevamo previsto, e così via. Non dico che queste cose non ci rendano felici, ma mi chiedo se sia questa la fonte della gioia di chi educa.