sabato 19 ottobre 2013

Educare non è un lavoro ma un modo di vivere

«L’educatore è un individuo consacrato al bene dei suoi allievi, perciò deve essere pronto ad affrontare ogni disturbo, ogni fatica per conseguire il suo fine, che è la civile, morale, scientifica educazione dei suoi allievi» (don Bosco).
Fare l’educatore non è un lavoro, diventa un vero e proprio modo di vivere che ha la conseguenza non di produrre dei beni ma di costruire persone. Per questo gli vengono chieste non solo capacità per saper realizzare un buon incontro e delle belle attività, ma la comprensione di una identità precisa che lo porta a crescere nel saper “essere per” chi gli è affidato.
Nel mio girovagare tra parrocchie e varie esperienze ho spesso trovato educatori preparati e in gamba, spesso però mi sono scontrato con uno dei limiti che colpisce la nostra attività educativa, quella di non riuscire a comunicare in modo giusto ciò che desideriamo trasmettere, spesso ci si scontra con la mancanza di sintonia tra chi ascolta e chi parla, a volte entra anche un eccessivo numero di contenuti compressi che vogliamo trasmettere; in ogni caso è chiaro a tutti senza bisogno di insisterci che determinante risulta la cura di uno stile che sia empatico influenzato sia dalla relazione personale sia dall’ambiente, usando tanti linguaggi e usando la propria vita narrata come luogo di incarnazione di quanto si cerca di comunicare.
Punto di partenza di ogni cammino educativo è l’accettazione incondizionata dei giovani così come sono e non come vorremmo che fossero, nella mia esperienza questo è uno dei tasti dolenti che tocca molto l’ambito genitoriale ma che riguarda anche l’ambito parrocchiale; non è semplice ma occorre accoglierne la dimensione psichica, fisica, sociale, ecc. Spesso quanto cerco di spiegare questo vengo frainteso e devo chiarire che non voglio dire che il giovane ha sempre ragione e va accolto tutto quello che fa, ma è per aiutarci a capire che se è quello che è ci sono dei motivi e che non possiamo non considerarli; tante volte è proprio difficile aiutare nel concreto un educatore a vivere nella convinzione che un ragazzo che presenta difficoltà oggettive e soggettive possa insieme essere guidato da una autentica buona volontà che lo anima e lo guida.
In questi anni di oratorio, di campeggi, di settimane di vita comunitaria, ho notato come lo stare insieme ai ragazzi aiuta ciascuno e il gruppo stesso a tirare fuori le proprie energie migliori oltre che allo stesso tempo evitare comportamenti sbagliati; non parlo di chi si limita a sorvegliare e neanche di chi sta lì e basta in modo insignificante, ma parlo di una presenza che sia insieme di quantità che di qualità di tempo e di modi da parte di chi ha scelto con gioia (e non subito) lo stare in mezzo ai giovani cercando di condividerne i gusti, le inclinazioni, le tendenze, il gioco, la preghiera, il riposo, …
L’educatore come tale dovrebbe vivere nella consapevolezza di essere volente o nolente modello di identificazione per il ragazzo, per i bambini da un punto di vista di figura che attrae e affascina, per quanto riguarda gli adolescenti maggiormente come relazione capace di rivedere la propria identità approfittando del confronto con l’altro, quindi non costringendo, ma aiutando a tirar fuori il bene, così anche da evitare la nascita di sensi di colpa nel ragazzo che dovesse non sentirsi in linea con le posizioni dell’educatore. Insieme a questo ruolo che potremmo definire di “paternità”, è bene che nasca anche una certa “fraternità” che prende il volto dell’amicizia per incarnare quello che chiedeva don Bosco ai suoi educatori: “siate nella stesso tempo amici e fratelli”; proprio per questo credo importante accanto ai cammini formativi belli che sono nati a servizio dei giovani, non dimenticare la necessità di starci in mezzo condividendo in modo anche concreto le loro passioni e le loro difficoltà. Concludendo facendo mie alcune parole di don Bosco: “Il maestro visto solo in cattedra è maestro e non più, ma se va in ricreazione coi giovani diventa come fratello. Se uno è visto solo predicare dal pulpito si dirà che fa né più né meno del proprio dovere, ma se dice una parola in ricreazione è la parola di uno che ama”

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