venerdì 18 ottobre 2013

Una sfida: accettare il percorso dell’autonomia


Tante volte mi capita di sentire una frase che torna spesso tra gli operatori che si occupano della formazione delle nuove generazioni: “La Cresima è il sacramento dell’abbandono”; la sento detta a volte con delusione, a volte con passione e desiderio che non sia così. Credo che occorra confrontarsi in modo sereno con la realtà della nostra situazione nella quale il modello di catechesi che normalmente pensiamo e abbiamo in testa è di tipo lineare e continuativo; questo modello fa fatica a mettere in conto salti e cambiamenti e pensa non siano coerenti con la proposta educativa che facciamo le rotture, le separazioni, gli allontanamenti dei nostri ragazzi; tutto questo porta a vivere in tanti operatori veri e propri momenti di lutto e sconfitta.Penso che il modello di iniziazione delineato sopra, e che è presente nel sangue di tanti, stia un po’ per aria e non si incontri con la realtà dell’uomo e a volte neanche con quella del Vangelo. Le scienze umane ci aiutano a capire che il viaggio dei nostri ragazzi verso l’età adulta avviene attraverso una progressiva “autonomia” che richiede anche strappi e abbandoni; non si diventa adulti senza lasciare il mondo dell’infanzia, i suoi ritmi e le sue modalità, le sue esperienze e regole. Non possiamo nasconderci che tra le altre, alcune delle esperienze caratterizzanti l’età infantile, siano proprio il catechismo, l’oratorio, ecc.; va quindi messo in conto e riletto in un ottica più ampia l’abbandono di tanti, non come rifiuto di Dio e del cammino proposto, ma come passo necessario per molti alla crescita. Visto che crediamo molto nel catechismo e ci impegniamo perché vi partecipi il maggior numero di ragazzi possibile (e questo è una cosa buona), dobbiamo allora mettere in conto a un certo punto la “partenza” dei due terzi e più di coloro che giungono all’età fatidica della Cresima. L’ansia di questo a volte ci rende ciechi e non ci fa vedere che forse la vera questione non è l’abbandono, ma lo scoprirci impreparati per il ritorno; ossia la mancanza di proposte nuove a chi è uscito senza riproporre le stesse di quando se ne è andato. Credo ci voglia da parte di tutti preghiera e attenzione alla voce dello Spirito Santo perché ci aiuti ad essere creativi, ad aprire nuove vie; credo sia necessario integrare fortemente la nostra “pastorale della continuità”.
Mi permetto di prendere l’icona evangelica del figlio prodigo (Lc 15,11-32) e di interpretarla in modo libero continuando il discorso sopra iniziato; a volte mi sembra che siamo molto preoccupati di far di tutto perché questo figlio giovane non se ne vada di casa, ma nonostante i nostri forzi e pur facendo ogni tipo di proposta possibile e immaginabile, lui parte lo stesso. Che strano questo impegno pastorale concentrato per evitare la fuga a confronto invece con il padre della parabola che lascia andare il figlio senza battere ciglio; certo lo avrà fatto con tanto timore, ma anche scommettendo e sperando in quanto fino ad ora gli aveva insegnato, continuando comunque a rimanere sulla porta sempre attento a non perdere segni di un possibile ritorno. Così è la situazione di tanti che dopo un periodo di allontanamento e grazie al nascere di una maturità diversa e di domande forti, sentono il desiderio di riscoprire la fede. Questo ci porta allo stesso punto di quanto detto più sopra: come accogliere chi ritorna, senza ostinarsi inutilmente ad evitarne la partenza?
Nonostante tutto per fortuna qualcuno resta “a casa” nei nostri gruppi parrocchiali, come fa il figlio maggiore della parabola e questo ci rende giustamente contenti, ma il lavoro non manca anche con loro infatti mi sembra che il figlio maggiore resti più per convenienza che per convinzione e sia comunque anch’esso figlio del suo tempo; da qui il cammino perché resti: non da servo ma da figlio, non per abitudine ma per scelta, non per “sedersi” ma per diventare testimone.

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