mercoledì 9 ottobre 2013

Tanti termini, ma un unico compito: educare

Nel compito educativo al quale sono chiamate le nostre comunità rientrano varie forme di terminologie a cui segue poi uno stile nell’agire pastorale. Una delle più diffuse nell’uso comune del nostro linguaggio ecclesiastico è il termine “catechesi” che di per sé viene inteso come “insegnamento”, usato in questo senso credo che non rappresenti veramente il compito al quale siamo chiamati nei confronti delle nuove generazioni, l’attività pastorale pur dovendo prevedere questo momento non può limitarsi solo ad esso, e tantomeno far sì che si identifichi con la semplice trasmissione di notizie.
Altro termine che ricorre frequentemente nei nostri ambienti è quello di “formazione”, questo approccio portato agli estremi vede nei giovani un qualcosa senza forma che deve ricevere un qualche modo di essere, ciò avviene attraverso un esperto che con il suo impegno plasma un’opera che di per sé vede bianca, così facendo il rischio diventa quello di non considerare il cammino e la bellezza già presenti nel giovane dimenticandosi così che la crescita nella vita e nella fede assume più l’aspetto di una autoformazione dove chi è destinatario lo è attivamente e non passivamente, cioè il soggetto principale è colui al quale ci rivolgiamo e il compito di chi lo segue si esprime come accompagnamento.
Altra componente che spesso emerge in chi si impegna in un compito educativo è l’imperativo di “fare esperienza”, questo mi sta bene ma credo sia richiesta una attenzione a far sì che il fare non diventi fine a sé stesso ma un fare per Dio; sicuramente rispetto al passato si può dire che le nostre comunità sono diventate luoghi dove c’è bisogno di tutti e c’è tanto da fare: grest, oratori, cene, spettacoli, processioni, raccolta fondi, feste parrocchiali e non, campeggi, tornei, doposcuola, assistenza agli anziani, ai portatori di handicap, ai poveri, ai tossicodipendenti, etc. Tutte attività buone e utili, intendiamoci bene, però in mezzo a tutto occorre chiedersi quale sia il centro del fare e dell’essere cristiani, tante esperienza vengono proposte ai nostri giovani come impegno per la crescita di fede, vedo però un pericolo nel trasformare queste attività da mezzi in scopi; ciò trasformerebbe la parrocchia da luogo educativo per le nuove generazioni a efficiente cooperativa sociale fatta di esperienze svuotate dal messaggio di Gesù e destinate a diventare sterili.
Quindi? Credo, che il nostro impegno non deve iniziare da un procedere generale e teorico per i nostri ragazzi, ma piuttosto tenere stretta nel cuore una domanda riguardo a cosa il Signore desidera per ogni giovane adesso, nella concretezza della sua vita, inoltre ci aiuta sempre far memoria che a noi spetta collaborare nella semina, ma poi ad un Altro spetta dare la crescita; rinnoviamo il nostro impegno a riconoscere in ogni giovane la novità e l’unicità della sua vita che ci chiama in un impegno concreto a servizio di chi mi trovo davanti. In che modo? C’è una parola tecnica che conoscono bene i missionari: inculturazione; comprendere la cultura in cui siamo immersi, i simboli con cui i giovani parlano, vivono, si esprimono, per poter dire qualcosa di significativo per l’oggi; può sembrare qualcosa di scontato ma forse erroneamente pensiamo che in fondo siamo anche noi in questa cultura solo per il fatto che ci viviamo. Forse occorre fare come accadde quando il cristianesimo nel IV secolo venne accolto nell’impero romano: come hanno cercato di annunciare al mondo pagano il vangelo? Usando gli stessi simboli del mondo pagano: messaggio cristiano e simbolo pagano permettevano a chiunque di percepire la novità cristiana.

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