Nel compito educativo al quale sono chiamate le nostre
comunità rientrano varie forme di terminologie a cui segue poi uno stile
nell’agire pastorale. Una delle più diffuse nell’uso comune del nostro
linguaggio ecclesiastico è il termine “catechesi” che di per sé viene inteso
come “insegnamento”, usato in questo senso credo che non rappresenti veramente
il compito al quale siamo chiamati nei confronti delle nuove generazioni,
l’attività pastorale pur dovendo prevedere questo momento non può limitarsi solo
ad esso, e tantomeno far sì che si identifichi con la semplice trasmissione di
notizie.
Altro termine che ricorre frequentemente nei nostri ambienti
è quello di “formazione”, questo approccio portato agli estremi vede nei giovani
un qualcosa senza forma che deve ricevere un qualche modo di essere, ciò
avviene attraverso un esperto che con il suo impegno plasma un’opera che di per
sé vede bianca, così facendo il rischio diventa quello di non considerare il
cammino e la bellezza già presenti nel giovane dimenticandosi così che la
crescita nella vita e nella fede assume più l’aspetto di una autoformazione
dove chi è destinatario lo è attivamente e non passivamente, cioè il soggetto
principale è colui al quale ci rivolgiamo e il compito di chi lo segue si
esprime come accompagnamento.
Altra componente che spesso emerge in chi si impegna in un
compito educativo è l’imperativo di “fare esperienza”, questo mi sta bene ma credo sia richiesta una attenzione a far sì che il fare non diventi fine a sé stesso
ma un fare per Dio; sicuramente rispetto al passato si può dire che le nostre
comunità sono diventate luoghi dove c’è bisogno di tutti e c’è tanto da fare: grest,
oratori, cene, spettacoli, processioni, raccolta fondi, feste parrocchiali e
non, campeggi, tornei, doposcuola, assistenza agli anziani, ai portatori di
handicap, ai poveri, ai tossicodipendenti, etc. Tutte attività buone e utili,
intendiamoci bene, però in mezzo a tutto occorre chiedersi quale sia il centro
del fare e dell’essere cristiani, tante esperienza vengono proposte ai nostri
giovani come impegno per la crescita di fede, vedo però un pericolo nel trasformare
queste attività da mezzi in scopi; ciò trasformerebbe la parrocchia da luogo
educativo per le nuove generazioni a efficiente cooperativa sociale fatta di
esperienze svuotate dal messaggio di Gesù e destinate a diventare sterili.
Quindi? Credo, che il nostro impegno non deve iniziare da un procedere
generale e teorico per i nostri ragazzi, ma piuttosto tenere stretta nel cuore
una domanda riguardo a cosa il Signore desidera per ogni giovane adesso, nella
concretezza della sua vita, inoltre ci aiuta sempre far memoria che a noi
spetta collaborare nella semina, ma poi ad un Altro spetta dare la crescita; rinnoviamo
il nostro impegno a riconoscere in ogni giovane la novità e l’unicità della sua
vita che ci chiama in un impegno concreto a servizio di chi mi trovo davanti.
In che modo? C’è una parola tecnica che conoscono bene i missionari:
inculturazione; comprendere la cultura in cui siamo immersi, i simboli con cui
i giovani parlano, vivono, si esprimono, per poter dire qualcosa di
significativo per l’oggi; può sembrare qualcosa di scontato ma forse
erroneamente pensiamo che in fondo siamo anche noi in questa cultura solo per
il fatto che ci viviamo. Forse occorre fare come accadde quando il
cristianesimo nel IV secolo venne accolto nell’impero romano: come hanno
cercato di annunciare al mondo pagano il vangelo? Usando gli stessi simboli del
mondo pagano: messaggio cristiano e simbolo pagano permettevano a chiunque di
percepire la novità cristiana.
Nessun commento:
Posta un commento