giovedì 2 gennaio 2014

Ma noi alla loro età non eravamo così!

Qualche giorno fa, al termine di un pranzo-incontro con un gruppo di giovani alcuni dei quali impegnati come catechisti in parrocchia, mentre si procedeva al sistemare il tutto, emerge nuovamente un lite motiv che accompagna tanti di quanti sono impegnati nel servizio educativo alle giovani generazioni e che emerge soprattutto nei momenti di difficoltà relazionale con i ragazzi. “Ma noi alla loro età non eravamo così”: nasce come grido di chi si scontra con il poco ascolto o la poca riconoscenza che gli adolescenti sembrano dare e la loro non disponibilità a riconoscere il ruolo di guida dei più grandi; concluse dicendo “non stanno zitti neanche quando parla il parroco”.
Con questo confronto questo mio giovane amico si è introdotto in due macro argomenti che mi è già capitato di affrontare in altri mie contributi, ma desidero riprenderli brevemente per rispetto e attenzione alla vita e agli incontri così come mi si propongono.
Parto dal secondo: “non stanno zitti neanche quando parla il parroco”; il nostro giovane educatore si scontra con il cambiamento avvenuto rispetto anche a pochi anni fa, quando lui era nella condizione dei suoi ragazzi, non è più il ruolo che funziona ma la relazione. Per un adolescente tu sei il mio parroco non perché ti ha messo lì il vescovo o perché  guidi la comunità, ma lo sei nella misura in cui sei capace di creare una relazione con me, si è chiamati quindi a riscoprire la dimensione di paternità tipica dell’essere parroco, abbandonando un riconoscimento scontato dovuto al ruolo che occupo; quindi pur capendo che non sia giusto disturbare durante un incontro e non rispettare figure adulte chiamate a guidare il gruppo di cui si fa parte, capisco però l’esigenza di chi adolescente chiede prima una prova per poi dare fiducia e ascolto, da loro accetto la sfida per una Chiesa che diventi amica e significativa in quello che dice, di educatori che si impegnino in un cammino non solo di trasmissioni di concetti e valori ma di vita e di relazione, quindi mi chiedo non come cambiare loro ma come cambiare io.
Per quanto riguarda il primo argomento che da il titolo all’articolo “Ma noi alla loro età non eravamo così”, questo ci deve essere utile a ricordarci che i nostri ragazzi non sono come noi e hanno diritto di essere così come sono. In questi ultimi anni le scienze psicologiche ci hanno aiutato a capire che sono cambiati tanti riferimenti per riuscire ad interpretare il mondo degli adolescenti, noi come educatori alla fede siamo chiamati a prenderci cura non solo dell’anima ma di tutta la persona, e non possiamo fare a meno di fare nostre le novità di quanto emerge riguardo al mondo giovanile. Non è giusto (né sul piano metodologico, né su quello del rispetto della persona) giudicare gli altri partendo da noi. Sì noi alla loro età non eravamo così, e allora? Questa affermazione corretta a cosa ci serve? Se ci serve per concludere che i ragazzi sono sbagliati e devono cambiare e mio compito è riportarli a come ero io riproponendo quello che io facevo e come io mi comportavo, allora è una domanda con conclusioni che mi portano proprio fuori strada e che cristianamente giudicherei violente nei confronti dei ragazzi. Se invece queste domande ci conducono ad aprire un cammino per chiederci: e loro come sono? Come posso accoglierli? Quale conversione è chiesta a me come educatore? Se sono queste le domande che ci corrono dentro siamo invece sulla strada giusta.
Con questo non voglio dire che sia giusto accogliere indiscriminatamente il loro comportamento abbandonando i punti di riferimento che l’esperienza ha dato alla mia crescita come educatore, dico che non si comportato come noi perché non sono noi, mi sembra qualcosa di banale, mi rendo conto però di una non altrettanta scontata consapevolezza per tanti; la maggior parte arriva a questo cortocircuito in buonissima fede, del resto non possiamo staccarci da quello che siamo e dalle esperienze che abbiamo avuto, ma questo non deve impedirci di aprirci al nuovo; la salvezza è per tutti, ma la mia via di salvezza non è detto che sia anche la sua, la mia esperienza di Dio non è detto che sia la sua, così come l’esperienza del primo amore, dell’amicizia, del rapporto con le gioie e i dolori e tutto il resto che gira intorno al nostro essere persone.
Cosa fare? Occorre tanta pazienza e un grande ascolto, serve un cambiamento di mentalità che dobbiamo compiere come educatori, serve tanta misericordia e poco giudizio, un po’ di studio e meno improvvisazione. Ognuno deve accettare la fatica e la bellezza del proprio compito, l’adolescente il proprio, l’educatore di rimanere tale sempre, mai con astio ma nella consapevolezza del proprio ruolo anche quanto questo diventa impegnativo, cercando di non misurare il frutto dell’impegno messa dai risultati immediatamente raccolti.

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