Qualche giorno fa, al termine di un pranzo-incontro con un gruppo di
giovani alcuni dei quali impegnati come catechisti in parrocchia, mentre si
procedeva al sistemare il tutto, emerge nuovamente un lite motiv che accompagna
tanti di quanti sono impegnati nel servizio educativo alle giovani generazioni e
che emerge soprattutto nei momenti di difficoltà relazionale con i ragazzi. “Ma
noi alla loro età non eravamo così”: nasce come grido di chi si scontra con il
poco ascolto o la poca riconoscenza che gli adolescenti sembrano dare e la loro
non disponibilità a riconoscere il ruolo di guida dei più grandi; concluse
dicendo “non stanno zitti neanche quando parla il parroco”.
Con questo confronto questo mio giovane amico si è introdotto in due
macro argomenti che mi è già capitato di affrontare in altri mie contributi, ma
desidero riprenderli brevemente per rispetto e attenzione alla vita e agli
incontri così come mi si propongono.
Parto dal secondo: “non stanno zitti neanche quando parla il parroco”;
il nostro giovane educatore si scontra con il cambiamento avvenuto rispetto
anche a pochi anni fa, quando lui era nella condizione dei suoi ragazzi, non è
più il ruolo che funziona ma la relazione. Per un adolescente tu sei il mio
parroco non perché ti ha messo lì il vescovo o perché guidi la comunità, ma lo sei nella misura in
cui sei capace di creare una relazione con me, si è chiamati quindi a
riscoprire la dimensione di paternità tipica dell’essere parroco, abbandonando
un riconoscimento scontato dovuto al ruolo che occupo; quindi pur capendo che
non sia giusto disturbare durante un incontro e non rispettare figure adulte
chiamate a guidare il gruppo di cui si fa parte, capisco però l’esigenza di chi
adolescente chiede prima una prova per poi dare fiducia e ascolto, da loro
accetto la sfida per una Chiesa che diventi amica e significativa in quello che
dice, di educatori che si impegnino in un cammino non solo di trasmissioni di
concetti e valori ma di vita e di relazione, quindi mi chiedo non come cambiare
loro ma come cambiare io.
Per quanto riguarda il primo argomento che da il titolo all’articolo “Ma
noi alla loro età non eravamo così”, questo ci deve essere utile a ricordarci
che i nostri ragazzi non sono come noi e hanno diritto di essere così come
sono. In questi ultimi anni le scienze psicologiche ci hanno aiutato a capire
che sono cambiati tanti riferimenti per riuscire ad interpretare il mondo degli
adolescenti, noi come educatori alla fede siamo chiamati a prenderci cura non
solo dell’anima ma di tutta la persona, e non possiamo fare a meno di fare
nostre le novità di quanto emerge riguardo al mondo giovanile. Non è giusto (né
sul piano metodologico, né su quello del rispetto della persona) giudicare gli
altri partendo da noi. Sì noi alla loro età non eravamo così, e allora? Questa affermazione
corretta a cosa ci serve? Se ci serve per concludere che i ragazzi sono
sbagliati e devono cambiare e mio compito è riportarli a come ero io
riproponendo quello che io facevo e come io mi comportavo, allora è una domanda
con conclusioni che mi portano proprio fuori strada e che cristianamente
giudicherei violente nei confronti dei ragazzi. Se invece queste domande ci
conducono ad aprire un cammino per chiederci: e loro come sono? Come posso
accoglierli? Quale conversione è chiesta a me come educatore? Se sono queste le
domande che ci corrono dentro siamo invece sulla strada giusta.
Con questo non voglio dire che sia giusto accogliere
indiscriminatamente il loro comportamento abbandonando i punti di riferimento
che l’esperienza ha dato alla mia crescita come educatore, dico che non si
comportato come noi perché non sono noi, mi sembra qualcosa di banale, mi rendo
conto però di una non altrettanta scontata consapevolezza per tanti; la maggior
parte arriva a questo cortocircuito in buonissima fede, del resto non possiamo
staccarci da quello che siamo e dalle esperienze che abbiamo avuto, ma questo
non deve impedirci di aprirci al nuovo; la salvezza è per tutti, ma la mia via
di salvezza non è detto che sia anche la sua, la mia esperienza di Dio non è
detto che sia la sua, così come l’esperienza del primo amore, dell’amicizia,
del rapporto con le gioie e i dolori e tutto il resto che gira intorno al
nostro essere persone.
Cosa fare? Occorre tanta pazienza e un grande ascolto, serve un
cambiamento di mentalità che dobbiamo compiere come educatori, serve tanta
misericordia e poco giudizio, un po’ di studio e meno improvvisazione. Ognuno deve
accettare la fatica e la bellezza del proprio compito, l’adolescente il
proprio, l’educatore di rimanere tale sempre, mai con astio ma nella
consapevolezza del proprio ruolo anche quanto questo diventa impegnativo,
cercando di non misurare il frutto dell’impegno messa dai risultati
immediatamente raccolti.
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