venerdì 22 novembre 2013

Ripensare i luoghi ecclesiali - parte 1

Premessa
Comincio una riflessione che sarà divisa in 3 o 4 parti; tutto nasce da una domanda intima nata in questi primi anni di ministero accanto ai giovani vivendo negli oratori e a servizio di parrocchie medio-grandi. Domanda che non ho tenuto solo per me ma che più volte con insistenza ho condiviso con altri preti e pubblicamente a tutti, ossia la necessità di maturare criteri di discernimento per mettere mano alla nostra realtà ecclesiale ricca di iniziative e opere delle quali però fatica ormai a farsi carico, il tutto alla luce anche della ridefinizione delle nostre comunità considerando il calo delle vocazioni e di una diversa composizione della parrocchia rispetto al passato. Cosa lasciare? Cosa tenere? A chi dire no? … e tante altre potrebbero essere le domande concrete da portare in superficie.
Per tanto tempo ho semplicemente riproposto in vari luoghi questa mia domanda consapevole di non avere una soluzione in tasca; ora nonostante mi trovi nella stessa situazione mi rendo conto che sia opportuno almeno avventurarsi nel buttare giù qualche linea di proposta. Mi rendo conto di essere ancora molto giovane e con poca esperienza, di non conoscere se non un pezzettino della nostra diocesi e di non essere mai stato parroco; per questo un po’ mi spaventa l’avventurarmi in questa impresa, così ho deciso di far partire la mia riflessione dall’ambito a me più familiare, ossia quello della pastorale giovanile, centrando il discorso su questo che è solo un aspetto della vita delle nostre comunità e vedendo se poi da qua riuscirà ad emergere qualcosa che possa andare bene anche per altri aspetti.
Come vedete dal titolo il tutto al fine di ripensare i luoghi ecclesiali. Prendete il tutto solo come una riflessione a voce alta messa per iscritto, non c’è la preoccupazione di essere completo e forse correndo il rischio che a volte il tutto sia buttato un po’ lì.


Il punto di riferimento
La pastorale trova la sua casa nella vita quotidiana della gente e niente può essere progettato e messo in atto rimanendo distanti dai luoghi abitati della vita di tutti i giorni.
La pastorale non può fare a meno di strutture (luoghi, persone, gruppi, organizzazioni …).
Oratori, sale di incontro, luoghi per esperienze, associazioni, società sportive, circoli…  nati dall’impegno della fede di tanta gente che ci ha preceduto ci sono ancora e in abbondanza, capita che oggi siano lontane da dove pulsa la vita concreta (del corpo e della mente) dei giovani di oggi.
Vita quotidiana e strutture devono tornare ad incontrarsi, da qui la necessità del ripensarsi.

Che fare di queste strutture?
Se funziona quello che dicevo prima, ossia del dare la precedenza ai luoghi della vita quotidiana realmente abitati dai giovani, possono nascere opposte domande. Il dilemma potrebbe essere: eliminiamo le strutture ormai non più attuali oppure ci puntiamo con forza nel tentativo di ribadirli e adeguarli per attrarre nuovamente la vita dei giovani perché possa tornare a passare di lì?
Una mediazione ai due estremi sopra indicati potrebbe maturare nel chiederci se è possibile un impegno a tempo parziale… “ad ore” staccandosi dal concetto legato al presidiare il territorio per passare a quello di seguire e servire le persone?
Non ho risposta ma credo opportuno non cercarne necessariamente una definiva, credo occorra piuttosto darsi insieme dei criteri, che siano il più evangelici possibile, e degli orientamenti anche perché la diversità del territorio e delle esperienze chiederà sempre di affidare il tutto a quanti poi sono in prima linea sul campo.

Non “se” ma “come”
Dando per scontato che si ritenga tuttora valida e necessaria l’importante funzione che le parrocchie e le altre realtà hanno nel rimanere radicate sul territorio e nel contatto con la gente, credo che la discussione possa orientarsi sul “come” farlo; in gioco c’è l’identità della comunità nell’essere di riferimento, ma questo non basta se non porta con sé anche un minimo di identità, di identificazione nel riferimento che vedo nella comunità. Cosa tutt’altro che scontata, non sempre riferimento e identità vanno di pari passo, è evidente come per tanti rimaniamo punto di riferimento per tante cose ma non allo stesso modo nasce senso di appartenenza alla comunità.
Credo sia il tempo di cominciare a diversificare fra quanti vivono il rapporto con la Chiesa come solo riferimento e chi come appartenenza (in un altro intervento sulla “Libertà” parlavo di differenza fra comunità dei battezzati e comunità domenicale o eucaristica); fino ad ora troppe volte l’unico dato usato per la programmazione è stato quello della solo “riferimento”, occorre credo rivedere il criterio sapendo che se non c’è un minimo di appartenenza i luoghi educativi diventano scialbi e lasciamo la persona in balia di se stessa. Con questo non voglio per principio escludere nessuno, riaffermo il diritto di tutti ad essere aiutati a crescere, ma occorre farlo con uno certo stile se no serve a poco o niente, se non a volte addirittura a fare del male alla gente illudendola di essere quello che non è.

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