Premessa
Comincio una riflessione che sarà divisa in 3 o 4 parti; tutto nasce da una domanda intima nata in questi primi
anni di ministero accanto ai giovani vivendo negli oratori e a servizio di
parrocchie medio-grandi. Domanda che non ho tenuto solo per me ma che più volte
con insistenza ho condiviso con altri preti e pubblicamente a tutti, ossia la
necessità di maturare criteri di discernimento per mettere mano alla nostra
realtà ecclesiale ricca di iniziative e opere delle quali però fatica ormai a
farsi carico, il tutto alla luce anche della ridefinizione delle nostre
comunità considerando il calo delle vocazioni e di una diversa composizione
della parrocchia rispetto al passato. Cosa lasciare? Cosa tenere? A chi dire
no? … e tante altre potrebbero essere le domande concrete da portare in
superficie.
Per tanto tempo ho semplicemente riproposto in vari luoghi questa mia
domanda consapevole di non avere una soluzione in tasca; ora nonostante mi
trovi nella stessa situazione mi rendo conto che sia opportuno almeno
avventurarsi nel buttare giù qualche linea di proposta. Mi rendo conto di
essere ancora molto giovane e con poca esperienza, di non conoscere se non un
pezzettino della nostra diocesi e di non essere mai stato parroco; per questo
un po’ mi spaventa l’avventurarmi in questa impresa, così ho deciso di far
partire la mia riflessione dall’ambito a me più familiare, ossia quello della
pastorale giovanile, centrando il discorso su questo che è solo un aspetto
della vita delle nostre comunità e vedendo se poi da qua riuscirà ad emergere
qualcosa che possa andare bene anche per altri aspetti.
Come vedete dal titolo il tutto al fine di ripensare i luoghi
ecclesiali. Prendete il tutto solo come una riflessione a voce alta messa per
iscritto, non c’è la preoccupazione di essere completo e forse correndo il
rischio che a volte il tutto sia buttato un po’ lì.
Il punto di riferimento
La pastorale trova la sua casa nella vita quotidiana della gente e
niente può essere progettato e messo in atto rimanendo distanti dai luoghi
abitati della vita di tutti i giorni.
La pastorale non può fare a meno di strutture (luoghi, persone, gruppi,
organizzazioni …).
Oratori, sale di incontro, luoghi per esperienze, associazioni, società
sportive, circoli… nati dall’impegno
della fede di tanta gente che ci ha preceduto ci sono ancora e in abbondanza, capita
che oggi siano lontane da dove pulsa la vita concreta (del corpo e della mente)
dei giovani di oggi.
Vita quotidiana e strutture devono tornare ad incontrarsi, da qui la
necessità del ripensarsi.
Che fare di queste strutture?
Se funziona quello che dicevo prima, ossia del dare la precedenza ai
luoghi della vita quotidiana realmente abitati dai giovani, possono nascere
opposte domande. Il dilemma potrebbe essere: eliminiamo le strutture ormai non
più attuali oppure ci puntiamo con forza nel tentativo di ribadirli e adeguarli
per attrarre nuovamente la vita dei giovani perché possa tornare a passare di
lì?
Una mediazione ai due estremi sopra indicati potrebbe maturare nel
chiederci se è possibile un impegno a tempo parziale… “ad ore” staccandosi dal
concetto legato al presidiare il territorio per passare a quello di seguire e
servire le persone?
Non ho risposta ma credo opportuno non cercarne necessariamente una
definiva, credo occorra piuttosto darsi insieme dei criteri, che siano il più
evangelici possibile, e degli orientamenti anche perché la diversità del
territorio e delle esperienze chiederà sempre di affidare il tutto a quanti poi
sono in prima linea sul campo.
Non “se” ma “come”
Dando per scontato che si ritenga tuttora valida e necessaria
l’importante funzione che le parrocchie e le altre realtà hanno nel rimanere
radicate sul territorio e nel contatto con la gente, credo che la discussione
possa orientarsi sul “come” farlo; in gioco c’è l’identità della comunità nell’essere
di riferimento, ma questo non basta se non porta con sé anche un minimo di
identità, di identificazione nel riferimento che vedo nella comunità. Cosa
tutt’altro che scontata, non sempre riferimento e identità vanno di pari passo,
è evidente come per tanti rimaniamo punto di riferimento per tante cose ma non
allo stesso modo nasce senso di appartenenza alla comunità.
Credo sia il tempo di cominciare a diversificare fra quanti vivono il
rapporto con la Chiesa come solo riferimento e chi come appartenenza (in un
altro intervento sulla “Libertà” parlavo di differenza fra comunità dei
battezzati e comunità domenicale o eucaristica); fino ad ora troppe volte
l’unico dato usato per la programmazione è stato quello della solo
“riferimento”, occorre credo rivedere il criterio sapendo che se non c’è un
minimo di appartenenza i luoghi educativi diventano scialbi e lasciamo la
persona in balia di se stessa. Con questo non voglio per principio escludere
nessuno, riaffermo il diritto di tutti ad essere aiutati a crescere, ma occorre
farlo con uno certo stile se no serve a poco o niente, se non a volte
addirittura a fare del male alla gente illudendola di essere quello che non è.
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