Alcuni spunti interessanti ripresi da un convegno
organizzato dalla pastorale giovanile diocesana.
Occorre ritrovare l’equilibrio ed essere
consapevoli che la realtà della situazione giovanile in Italia non è quella
rappresentata dai raduni di massa tipo GMG, questo non vuol dire che sia come
descritto da una visione pessimista che si sta diffondendo anche in ambito
ecclesiale riguardo una generazione ritenuta incredula; rimanendo consapevoli
della situazione, occorre però recuperare quello sguardo ottimista che dovrebbe
essere proprio di ogni cristiano che sa di non essere sole ad affrontare le
situazioni contingenti, che sa di essere chiamato a vivere anche di speranza…
occorre saper puntare sul potenziale che ancora esiste nei giovani.
Se da un lato assistiamo ad un allontanamento dalla
Chiesa, dall’altro regge il radicamento alla fede, certo tutto da verificare,
forse imperfetto qualche volta deviante, ma rimane; c’è qualcosa su cui
lavorare, questo è da tenere presente per evitare un approccio troppo spesso
moralistico che vede nei giovani dei contenitori vuoti da dover riempiere,
mentre la prospettiva giusta è quella dell’educazione, del tirare fuori, del
fare emergere.
Lo stacco che segue alla Cresima è una cosa
“normale” da mettere in conto visto come viene organizzata la catechesi e come
funziona lo sviluppo maturativo dei ragazzi nel passaggio dalla fanciullezza
all’adolescenza, anche chi rimane è chiamato a porsi nuove domande, a vivere la
propria ricerca fatta anche di crisi; il vero problema non è l’abbandono e il
mettere in dubbio quanto fino ad ora gli era stato insegnato, ma la nostra
incapacità ad intercettarne i motivi rispettarne i tempi e sorvegliarne i
possibili ritorni.
Credo interessante un termine a me nuovo emerse
nella discussione, quello di “fede in standby” che richiama a un momento
concreto della fase evolutiva dove i giovani sono impegnati ad occuparsi di
altre cose così che la pratica della fede con le sue scelte viene spostata in
avanti; fa emergere la sindrome “da lavatrice”, di ragazzi centrifugati in
tante cose e così distratti da quello che conta veramente che si allontanato da
ciò che è centrale, si tratta di attuare un lento cammino di ricentramento che
chiede sia alle famiglie che anche alle comunità di aiutare i giovani a non
perdersi in una moltitudine di opportunità e attività.
Occorre uscire da una logica eccessivamente
matematica, la dimensione di fede non può essere precisamente misurata, non può
essere un fenomeno di cui si dice che c’è o non c’è, nasce una terra di mezzo
del credere che si manifesta come indeterminatezza: è una specie di
possibilismo, capace di mantenere aperte le porte. Spesso si tratta di un
bisogno di personalizzazione del credere, infatti c’è difficoltà oggi ad
aderire ad un sistema di credenza così che solo chi è in grado di
personalizzare l’esperienza di fede la vive a pieno.
Il credere oggi è fatto più di inquietudini che di
certezze e di tranquillità, da qui ci viene chiesto di vedere le persone che la
pensano diversamente da noi non come nemici da combattere ma come persone in
cammino in un processo che è dinamico, all'interno del quale ci possono essere
scelte diverse nell'identificarsi con la fede della Chiesa. E’ necessario
lasciare le porte aperte. I giovani ragionano in termini di fasi, di tappe di
percorso che può durare per l’intera vita. È necessario rimanere aperti a una
dimensione di appartenenza che prevede vari livelli d'ingresso dove al centro
c'è il soggetto con il suo cammino a volte lungo e che non sempre permette
un'unica definizione del credente di oggi. Se lo si volesse definire con un
termine che rimanda alle pari opportunità, si dovrebbe dire che i giovani non
sono increduli, ma diversamente credenti e spiritualmente sensibili.
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