(Enzo Bianchi - La Stampa, 31 luglio 2016)
Da anni i
più attenti conoscitori del mondo giovanile vanno ripetendo che siamo di fronte
a un cambiamento radicale nella difficile arte di trasmettere alla generazione
successiva i principi ritenuti fondamentali per affrontare il duro mestiere di
vivere e di vivere in società. Non solo perché sono crollate le ideologie e i
sistemi sociali che ad esse si ispiravano, ma ancor più perché alla consueta
diffidenza che ogni generazione nutre per il patrimonio di valori che quella
precedente ha da trasmettere, si è aggiunta la convinzione che non c’è più
nemmeno un patrimonio da ricevere: la cultura globalizzata dominante sembra
affermare che il mondo inizi sempre da capo, che l’umanità non possieda
capisaldi condivisi, che una scelta equivalga all’altra e che domani si possa
“rottamare” quello che abbiamo acquisito oggi. Del resto è significativo che
alla consueta e magari stantia domanda rivolta ai ragazzi – “cosa vorresti fare
da grande?” – la risposta non consista ormai più nell’uno o nell’altro mestiere
o professione bensì in un sempre più maggioritario e tragicamente uniforme:
“Vorrei avere molti soldi per fare ciò che mi piace”.
In questo
contesto, cosa dire alle decine di migliaia di giovani cristiani che si
ritrovano in questi giorni in Polonia all’indomani di un’impressionante serie
di stragi in tutto il mondo culminate, per noi in Europa, con il brutale
assassinio di un anziano prete da parte di due loro coetanei? Cosa rispondere a
quanti di loro di fronte al male nel mondo si chiedono, come ha fatto papa
Francesco ad Auschwitz, “dov’è Dio?”? “Dio abita dove lo facciamo entrare”,
risponde un detto chassidico, ed è una verità che per i cristiani ha preso
carne in Gesù di Nazareth, venuto tra i suoi e accolto solo dagli ultimi.
D’altro canto, la domanda lancinante ne genera da sempre un’altra, ancor più
decisiva per noi: “Dov’è l’uomo?”. Dov’è l’umanità quando altri esseri umani la
calpestano e la negano? Dov’è l’uomo quando il grido del povero è soffocato nel
sangue?
Allora ai
giovani si potrebbero suggerire alcune indicazioni di senso o, meglio, qualche
traccia che loro stessi dovrebbero trasformare in sentiero verso una pienezza
di vita. La prima, forse decisiva, è che, a prescindere dagli entusiasmanti
raduni oceanici, non esistono “i giovani”, esiste ciascuno e ciascuna di loro
e, accanto a loro, quella rete reale e non
virtuale di rapporti umani intessuti tra coetanei e non, affini o meno.
E che in questo tessuto – che possiamo chiamare società o comunità umana – ogni
persona è lì, con la sua unicità che, se non è messa e custodita in una
relazione di solidarietà e comunione, muore per asfissia. Ciascuno è lì con la
propria responsabilità, la propria capacità di rispondere alle sollecitazioni
che l’altro gli pone, con la consapevolezza che da ogni gesto, parola, azione
offerta o negata può derivare la vita o la morte di chi ci sta accanto.
La seconda,
a prima vista deludente, è che non è vero che ai giovani appartiene il futuro,
essi non sono “il futuro” della società o della chiesa: sono parte attiva del
presente che appartiene a loro come a tutti. Sta anche a loro far sì che, a
partire da questo presente, si creino le condizioni affinché ciascuno abbia la
possibilità di vivere con dignità, già ora e poi anche in futuro.
Pensavamo
che per far questo potessimo lasciar perdere i grandi sistemi di pensiero,
religiosi o no, e rifugiarci in un quotidiano plasmabile e riplasmabile ogni
giorno a nostro piacimento, ma da anni la violenza qui in occidente mira a
colpire proprio lo scontato delle nostre esistenze, le nostre abitudini, il
normale svolgersi delle nostre giornate, i nostri piccoli o grandi interessi
personali. Va quindi recuperata la grandezza dello stare insieme per libera
scelta consapevole, la difficile bellezza della convivenza stabile, la durata
dei rapporti, la fedeltà che implica fiducia offerta e ricevuta, la volontà di
edificare insieme la casa comune. Non sono impegni solo per i giovani, sono
sfide che attendono tutti e che anzi richiedono una forte fraternità
intergenerazionale: abbiamo tanto insistito in questi ultimi decenni sul valore
della libertà – isolandolo da ogni altra istanza etica e declinandolo come licenza arbitraria priva di ogni limite
– e siamo così giunti a non saper più che farcene perché abbiamo dimenticato
l’uguaglianza vissuta non come livellamento al basso ma come autentica
fraternità, come legame tra persone che – come i fratelli e le sorelle – non si
sono scelte eppure condividono l’origine, la casa, il cibo e magari anche i
sogni e il futuro. Sapremo, adulti, anziani e giovani, ricominciare insieme la
meravigliosa, esigente avventura dell’umanità riconciliata?
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