Durante un incontro di educatori in oratorio, venne
presentato un progetto che avrebbe dovuto coinvolgere i ragazzi
trasversalmente, indipendentemente dai gruppi di appartenenza. Necessario era
il ruolo degli educatori per accompagnare la cosa, pertanto prima di procedere
ci cercò di verificare la loro disponibilità. Il tutto risultò interessante per
verificare se la proposta fatta venisse portata avanti e sentita come propria
anche se non rivolta solo ai propri ragazzi; in gioco c'era la capacità del
gruppo educatori si sentirsi tale e di percepire il proprio servizio, se pur
rivolto a gruppi specifici, come parte di una famiglia più grande che era la
parrocchia.
Da parte dei più emerse una risposta fraintendibile che
suonava così: ci stiamo nella misura in cui ci stanno i nostri
ragazzi. La cosa contiene sicuramente uno stimolo positivo perché fa
emergere subito la disponibilità e il desiderio di accompagnare i propri
ragazzi stando lì dove decidono di andare, di mettersi in ascolto di quanto
desiderano facendosene carico; nonostante questo la cosa pur essendo bella non
sembrava pienamente soddisfacente.
Come fece notare una tra le educatrici più esperte, il tutto
avrebbe dovuto funzionare all’opposto: sono
i ragazzi che ci stanno nella misura in cui vedono gli educatori starci.
Sicuramente l'intervento era opportuno per rendere chiaro il servizio al quale
siamo chiamati.
Entrambi gli aspetti sono rilevanti, ma quanto si opponeva
nel confronto fra questi due modi di adesione diversi, era il ricavare chi
fosse il motore e l’incoraggiatore delle attività: nel primo caso i ragazzi,
nel secondo gli educatori. Non solo, ma viene fuori anche un modo diverso di
porsi nei confronti dei giovani: il primo pone le figure guida un po’ come
rimorchi, nel secondo sono le motrici.
Non sto dicendo che sia necessario un atteggiamento
impositivo e impostato sull’autorità di uno che decide e gli altri che
eseguono, si tratta di saper coinvolgere dando ragione di quanto chiesto e
chiedendo anche ai ragazzi un anticipo di fiducia, non cieca, ma fondata anche
sul fidarsi di chi guida.
Il giorno cominciava a declinare e i
Dodici gli si avvicinarono dicendo: "Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e
trovare cibo: qui siamo in una zona deserta". Gesù disse loro: "Voi stessi date loro da mangiare". Ma essi
risposero: "Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non
andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente". C’erano infatti circa cinquemila uomini.
Egli disse ai suoi discepoli: "Fateli sedere a gruppi di cinquanta
circa". Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due
pesci, alzò gli occhi al cielo,
recitò su di essi la
benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste. (Lc 9,12-17)
Emerge un bisogno che richiede una presa di posizione. In
gioco c’è la salute e il benessere delle persone che in quel momento erano lì
in compagnia di Gesù e dei suoi apostoli. Mi sembra di vederla questa folla,
nei tanti giovani che frequentano le tante attività loro proposte; fino dove
arriva il nostro compito di educatori? Fino al suono della campanella? Alla
fine dell’allenamento? Con il canto finale della Messa?
Gli apostoli non sono cattivi, sono stanchi e rientrati da
poco dalla missione che Gesù aveva loro affidato, ce l’hanno messa tutta, sono
stati bravi; a loro viene normale affrontare la situazione di bisogno che si
trovano davanti suggerendo una risposta umanamente comprensibile, non lontana
da tanti nostri atteggiamenti: lasciare che la gente si arrangi. Succede tutte
le volte nelle quali salta la rete educativa del territorio, quando ognuno fa i
fatti propri dimenticandosi di un orizzonte più ampio dove i ragazzi non sono
solo miei, ma inserirti in una vita più ampia.
Gesù interviene, indica una direzione diversa che disorienta
gli apostoli, pone un orizzonte nuovo di azione. I dodici stavano cercando di
farsi da parte, Gesù li richiama al centro per farsi carico della cosa. Serve
anche a noi che ci venga ricordato, che l’opera educativa non può avere sempre
orari rigidi, non può limitarsi a gruppi chiusi e ristretti; siamo spronati a
farci carico di quanto accade al di là del previsto. Non possiamo dire ai
nostri ragazzi che si arrangino, Gesù ci invita a dare del gas, non a frenare.
Non che il tutto sia semplice, hanno motivi oggettivi e
personale validi questi dodici per essere in difficoltà. Hanno poco se non
niente. Qualcosa però comincia muoversi, qualcuno propone di andare a cercare
da mangiare anche a costo di comprare il necessario. Non è poco visto che la
disponibilità a mettere mano al portafoglio, è un segno di maturità nel
condividere con gli altri. Ma non basta perché ancora non è chiara la cosa, non
si sentono coinvolti in prima persona, sperano di risolvere il problema con un
aiuto che viene dal di fuori.
Gesù vede che ora sono carichi e disponibili, interviene lui
per superare quel limite che da soli li frenava nel loro donarsi completamente.
Il maestro fa la sua parte, ma sempre coinvolgendo i dodici. Loro diventano i
volti e le mani di quella provvidenza che si realizza in una moltiplicazione, nata
dalla condivisione di chi ha saputo esser parte attiva di un progetto di
salvezza, che ci chiama a essere a volte promotori e altre collaboratori
preziosi, ma mai ruote di scorta.
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