lunedì 30 marzo 2015

Partire da ciò che c’è per renderlo migliore: formare la coscienza

Sintesi secondo incontro di don Alessandro Manenti durante il corso vicariale di formazione per educatori, 20 gennaio 2015, Guastalla (RE)

Il cammino che siamo invitati a fare con i ragazzi tenendo presente la loro vita, non è però da confondere come una ricerca indirizzata verso un umanesimo perfetto che basta a se stesso, per compiere il cammino occorre una illuminazione che avviene dentro di me, ma che non sono io a darmi; questo vuol dire che non basta conoscere i meccanismi del cuore umano, occorre anche inoltrarsi nel campo della novità portata da Gesù. Essa non è una questione di regole morali, non è un precetto, non è qualcosa di esterno, ma agisce dall'interno di noi stessi, è grazia dentro di noi, è una legge interiore che per se stessa introduce una nuova sensibilità nel cristiano; così nasce la consapevolezza che c’è la possibilità di avere un altro modo di fare le cose rispetto a quello a cui ero abituato crescendo nel mondo. Non si tratta solo di comportamenti nuovi, ma di un nuovo modo di vedere le cose.
Capita nella mia vita di ritrovarmi ad agire in automatico e sperimentare anche come a un medesimo oggetto o comportamento diverse persone possono dare valore e valutazione diverse, entriamo così dentro il tema ampio che per educare i comportamenti occorre formare la coscienza, purtroppo non tutte le impostazioni educative sono così strutturate, alcune si limitano a controllare i comportamenti o a limitare il rischio di essi senza agirne sulla radice.
Lo scoglio concreto contro il quale si scontra la proposta del Vangelo è che il suo messaggio di vita non viene accolto immediatamente dal cuore umano, la cosa non è automatica né scontata, anzi a volte viene percepito come messaggio di morte che va contro il bene della persona. Quante volte capita anche a noi di trovarci in difficoltà a dire certe cose ai ragazzi riguardo a quando suggerisce Gesù, per non guardare a quando sono i giovani stessi che ci dicono che è una cosa esagerata impossibile da fare; pensate il proporre di porgere l’altra guancia a uno che è stato appena offeso, oppure non solo di portare pazienza ma di perdonare sempre, sono cose che non ci vengono naturali e che anzi ci chiedono spesso un grande impegno e non siamo sempre convinti della loro efficacia. Come funziona allora la cosa? Tutto questo lo sperimentiamo se continuiamo a basarci solo su noi, succede invece che se siamo disposti veramente a crederci, se ci fidiamo, solo in seconda battuta il tutto può essere percepito come realizzazione di un progetto di vita. In prima istanza suscita scandalo e ribrezzo, paura, occorre pertanto che la coscienza sia educata altrimenti il passaggio non ci sarà mai, ecco il ruolo di una comunità che si impegna per questa conversione, ecco l’opera dell’educatore alla fede.
Come accennato diventa quindi centrale l'atto di fede, l'assenso di fede, il “mi fido”; non è la mia sensibilità che mi porta a dire di sì ma il riconoscere in Gesù il figlio di Dio, il riconoscere nella comunità cristiana e nella figura dell’educatori postomi accanto la compagnia di Dio che non mi lascia solo; può capitare allora di continuare a fare fatica in certe cose e di sperimentare come una “morte” certe cose, ma vado oltre e mi affido e sperimento così solo dopo che diventa vita. L'educazione ha il compito di favorire questa resa, questo fidarsi. Progettare la vita in base a una certezza che viene dal di fuori, mi chiama e può diventare parte di me se accolta.
Tante volte non ci sono giustificazioni umane che possono supportare e convincere a compiere quello che viene chiesto, occorre fidarsi, la giustificazione arriva dopo, in partenza è senza una verifica anticipata, ci si fida di chi ce l'ha detto, dopo di che accadrà che la verità si svelerà a chi ci si sarà buttato. Capita una cosa simile al termine del racconto della Samaritana che vede come protagonisti gli abitanti della sua città che subito credono fidandosi di quanto raccontato loro dalla donna, ma poi arrivano a sperimentarlo come vero direttamente per la loro vita.. Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: "Mi ha detto tutto quello che ho fatto". E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: "Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo" (Gv 4, 39-42)
Tutta questa cosa, che di per sé sembra veramente un cammino lungo, e lo è, si può fare dentro le cose anche piccole di tutti i giorni perché comunque la coscienza lavora e agisce, occorre saper leggere le domande che le cose quotidiane pongono ai ragazzi. Per far questo, sinteticamente, possiamo individuare due modelli di approccio.
Il primo aiuta il soggetto ad essere cosciente alle proprie azioni colpendo il comportamento, rimuovendo quelli devianti criticandoli e condannandoli, a questo di solito è legata una minaccia operata dalla vita (es.: se continui a bere rischi la salute) o di una forza esterna (es.: se non cambi atteggiamento ti mando via); questo modo rischia di cadere nel ricatto affettivo facendo sentire l'altro in colpa e ricorre a uno stile moralistico che non sempre viene percepito come aderente alla vita.
Il secondo modelli non si ferma al comportamento oggettivo ma si ne chiede il senso, costruire coscienza cercando di leggere il motivo di quanto succede, il perché (es.: visto che cerchi qualcosa sei tu o qualcosa di te che ti porta a fare questa cosa? Secondo te il tuo comportamento dà quello che tu cerchi oppure no?); questa modalità offre la possibilità di una nuova relazione per percorrere insieme una strada migliore, che non è una strada alternativa, ma la stessa strada percorsa in maniera diversa, con una migliore coscienza di sé stessi.
Decisivo risulta insieme alla scelta dell’approccio anche il come portiamo dentro di noi i nostri ragazzi, come li vediamo, la loro immagine dentro di noi; ogni educatore è chiamato a riconoscere i propri pregiudizi nei confronti di alcuni suoi ragazzi, a volte a causa della storia passata, di una sintonia mancante, di caratteri non compatibili; l’educatore dovrebbe essere capace di andare oltre anche perché gli adolescenti sono molto sensibili a queste dinamiche; rimane comunque il fatto che occorre una grande vigilanza perché anche con il massimo dell’impegno rimangono comunque innate dentro di noi delle precomprensioni spesso non tematiche e che guidano il nostro agire, del resto non solo i ragazzi sono in cammini di formazione della loro coscienza, ma in contemporanea anche noi.

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