mercoledì 28 novembre 2018

Perché i ragazzi non vengono più?

In passato si è lavorato tanto per offrire luoghi accoglienti per i ragazzi, anche associazioni di vario genere e amministrazioni pubbliche si sono mosse in questa direzione. Penso in particolare alla Chiesa ricca di oratori, campi da calcio o altri sport, saloni, cinema e chi più ne ha più ne metta. Abbiamo continuato ad andare avanti così per un po’ fino a quando ci siamo accorti che qualcosa non andava, c’era un calo della frequenza, in molti casi si è risposto costruendo altre cose nuove e investendo su professionisti che potessero abitare questi luoghi facendone anche una eccellenza nel campo dell’accoglienza delle giovani generazioni. Eppure le strutture e le iniziative tardano a riempirsi, non corrispondono alle aspettative del mondo adulto che le aveva costruite e programmate.
Veniamo all’oggi, se apriamo gli occhi e vogliamo vedere, incontriamo ragazzi (medie e primi anni delle superiori) la cui vita è alla ricerca di un gruppo di amici dove abitare, perché è lì nell’incontro con l’atro che trova sé stesso. Desiderano vivere però in gruppi che hanno la peculiarità della spontaneità, ossia informali.
Questa “novità”, non sempre colta nelle sue conseguenze che forse potevano essere previste, ha contribuito alla situazione che viviamo oggi, ossia di attività e luoghi pensati per gli adolescenti, ma da loro ormai poco abitati perché non più adatti ad accoglierne le ricerche, inoltre non sempre disposte a dare spazio per essere “colonizzate” da gruppi un po’ fuori dal nostro controllo.
Del resto l’appartenenza a un gruppo ha una forte importanza evolutiva, a cui corrisposte una grande ricerca di rispecchiamento e consenso, questo avviene sempre prima rispetto al passato. Inoltre, progredendo verso la pienezza dell’adolescenza, appare sempre più come un fenomeno sociale non trascurabile: la centralità del gruppo di amici, con gli aiuti e i rischi che si porta dietro.
Mi è già capitato in passato di parlare di come i ragazzi vivono un’appartenenza a due famiglie[1](in realtà tre), quella naturale e quella sociale (a cui si aggiunge quella virtuale). Del resto il nostro mondo organizza la vita dei ragazzi prevedendo che passino molto del loro tempo insieme ai loro coetanei, per loro diventa quindi normale confrontarsi con loro e prendere decisioni, interpretando insieme questo mondo. Gli adulti, con gli spazi pensati da loro, diventano qualcosa di secondario.
Perché non diventi altrettanto il nostro occuparci di loro occorre superare il lamento generale per l’assenza dei giovani. I ragazzi ci sono, anche intorno alle nostre parrocchie, mi capita però di parlare con alcuni preti e mi sento dire che non hanno tempo, così anche giovani educatori anch’essi con una vita impegnata in tante cose, per non parlare di chi pur avendo famiglia prova a spendersi nel campo dell’educazione. 
Così si fatica nel trovare chi possa affiancare gli adolescenti nei cammini educativi e di servizio, sia perché non è semplice stare accanto a essi, sia perché “non abbiamo tempo”. A me può star bene che lo si dica, però poi non accetto che ci si lamenti che i giovani non ci sono anche perché non è così.
Può capitare che i giovani non ci siano in contemporanea con te, però poi ci torni e li trovi durante l’allenamento alla società sportiva, negli incontri che si fanno durante la settimana, negli momenti e percorsi offerti dal mondo associazionistico dedicato loro, a scorrazzare liberamente negli spazi per noi anonimi ma per loro pieni di significato. Questo senza contare tutti quei luoghi non della Chiesa che comunque portano avanti un’attenzione per le giovani generazioni, prime fra tutte la scuola, habitat ormai obbligato fino a una certa età e comunque scelto da molti fino ad arrivare alle porte dell’età matura.
A volte mi chiedo perché siamo così testardi da volerci inventare sempre qualcosa di nuovo per attirare i ragazzi da noi, quando sarebbe così semplice andare da loro dove già si trovano e passano la loro vita, basta sceglierlo lasciando da parte altro sia a livello d’impegni che di gestione di strutture.
Se la Chiesa desidera investire in questo campo pastorale è necessario che nascano nuove figure pastorali (educatori, preti, suore, diaconi) che non trovano in una parrocchia il proprio riferimento ministeriale principale, ma nel servizio alle giovani generazioni lì dove sono: scuole, oratori, associazioni ecclesiali e non, luoghi del divertimento, società sportive, comunità di recupero, centri di accoglienza per gli immigrati… 
È il caso di fermare la fantasia nel crearne nuovi cammini e struttue, chiedendoci se siamo disposti a farci carico dei tanti ragazzi che ci passano fra le mani. Ci viene chiesto di riprendere e ridefinire gli obiettivi della nostra pastorale che non possono più rimanere ancorati al passato né a modelli abituali di pensiero ormai disincarnati. Adottando una logica di evangelizzazione attenta al concreto, che sappia far camminare insieme le diverse forze presenti nel tessuto ecclesiale, creando rete con il variegato mondo educativo della nostra società sapendo far tesoro delle tante indagini prodotte, chiamando a rapporto l’intera comunità cristiana responsabile del compito.
Occorra rivedere la figura stessa dell’educatore cristiano; se si desidera incontrare i giovani nei loro luoghi di vita, occorre accettare di non avere subito pronto il proprio gruppo ristretto, ma rimanere aperti a tutto il territorio, il cui obiettivo non è innanzitutto “riempire” le chiese. 
Non parliamo di una presenza portata avanti da professionisti del sacro o “addetti al lavoro”, occorre che tanti, non sempre i soliti, siano coinvolti in un processo di animazione capace di mettersi in ricerca dei tanti che non desiderano frequentare un gruppo, una liturgia o altre attività nelle quali solitamente come Chiesa organizziamo la nostra pastorale. Questi animatori dovrebbero condividere il sogno, o almeno accettarlo, di vivere “dispersi” sul territorio per incontrare i giovani che vi transitano, offrendo il messaggio di vita di Gesù e a qualcuno di loro (per chi è pronto e lo desidera) il poter entrare a far parte di una comunità. 
Animatori molto diversi al proprio interno, uniti dal fatto che la vita dà loro la possibilità concreta di passare tempo con i ragazzi: genitori, allenatori, insegnanti, preti, suore, gestori di locali, assessori, personale ausiliario scolastico, ecc.

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