sabato 31 dicembre 2016

Educare i giovani alla fede è possibile?

Spesso quando incontro gruppi di educatori mi viene posta la domanda intorno a programmi da portare avanti con i ragazzi, ossia l’attenzione è posta sul cosa fare con loro, i contenuti. Certamente essi sono importanti, ma volendo svelare la sintesi di questo mio intervento, credo sia opportuno prendere altrettanto seriamente la vita dei giovani, partendo da chi sono qui e ora, passando attraverso i loro ritmi, insieme alle fragilità e alle ricchezze che si portano dietro.
La domanda posta come titolo, risente di varie obiezioni o proposte che ciclicamente riemergono nel contesto ecclesiale e civile: se la fede è dono di Dio occorre solo mettere la persona in contatto con essa; all’opposto c’è chi ritiene che occorra un percorso di assimilazione di dottrine e contenuti vari senza i quali il dono offerto da Dio rimane inefficace. Per quest’ultimi fede è solo da intendersi nel suo contenuto documentato dalla tradizione ecclesiale, così che si vive nella fede quando si conosce questo pacchetto di verità, si è capaci di esprimerlo in modo abbastanza corretto e ci si impegna ad adeguare la propria esistenza alle proposte in esso contenute.
Per quanto mi riguarda, proprio perché occorre che le proposte dei percorsi di fede siano attente e mettano al centro la persona, credo che oggi occorra far sì che la pastorale consideri adeguatamente l’apporto delle scienze umane, in particolare di quelle che trattano i temi dell’educazione e prima fra tutte la psicologia, facendolo a tal punto da riconoscere come siano, anche se indirettamente, funzionali a un cammino di crescita nella fede. Quanto appena detto risulta probabilmente una precisazione non necessaria, in quanto tutto il processo di educazione alla fede non può avere un procedimento diretto tra educatore ed educando come viene in altri luoghi, infatti la fede per sua natura è posta innanzitutto sul piano del rapporto tra la persona e Dio, spazio che non è da altri appropriabile e che appella il soggetto stesso a una risposta diretta. Per questo occorre affermare che la fede è un dono, in quanto tale non viene innanzitutto da un’opera di informazione o riflessione, ma dall’accogliere una Parola di cui siamo destinatari e che chiede di essere accolta.
Succede poi che essa divenga in me o attraverso altri, parola umana, nel linguaggio a noi abituale, comprensibile a tutti, così il processo di salvezza assume in sé, secondo la logica dell’incarnazione, i modi soliti del vivere comune e degli altri processi educativi tipici della vita quotidiana. Essenziale diviene quindi l’impegno a servizio della persona per far sì che le sue capacità possano esprimersi liberamente, aiutando a rendere chiari i segni concreti della salvezza, ossia rendere capace l’individuo di rispondere in modo maturo al dono di Dio.
Pur riconoscendo il giusto ruolo a quanto detto, occorre ricordarsi che la condizione che ci accompagna, sia come persone che come processi educativi, si porta dietro il peso e i segni del peccato, questo ci chiede di vigilare sempre affinché fuggiamo dalla tentazione di identificare, con un solo pur attraente processo umano, il tutto dell’educazione della fede.
Riguardo ai contenuti, un cammino di fede non ha temi specifici da aggiungere a quelli che la vita già pone; diverso è sicuramente il modo nel quale ci si pone, quello che conta non sono tanto la raccolta di diverse informazioni, ma il prendere sul serio la propria storia come luogo dove Dio agisce e parla, questo chiede una lettura “intelligente”, ossia capace di andare in fondo a quanto capita fino a raggiungerne il mistero. Questo sguardo dovrebbe portare a una unità tra fede e vita, non come due prospettive divergenti, ma come dimensioni orientate insieme e che possono trovare una sintesi così come è stata realizzata dalla realtà dell’incarnazione di Dio che si fa uomo, rimanendo al contempo e uno e l’altro, ma in un’unica persona.
Credo che tutto questo sia determinante affinché la nostra pastorale possa essere efficace, ossia in ascolto accogliente e disponibile delle ricerche dei giovani che spesso richiedono il saper fare nostri nuovi criteri interpretativi del loro vissuto fatto di culture, linguaggi e strumenti variegati rispetto a quelli ai cui siamo solitamente abituati e che spesso ci trovano parecchio in difficoltà. Il punto di partenza non può essere il rifiuto di quanto non comprendiamo, neanche una opposizione per partito preso nei confronti di quanto giudichiamo errato; un corretto inizio chiede il saper discernere ciò che di bello, buono e vero è presente. Questo porta anche al cambiamento dei luoghi dell’agire pastorale, essi posso diventare vari e a volte anche impensati, eppure reali perché lì i giovani vivono, crescono, si esprimono, crescono nei loro sogni e maturano quei valori di riferimento per la loro vita di adulti.

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