Spesso quando
incontro gruppi di educatori mi viene posta la domanda intorno a programmi da
portare avanti con i ragazzi, ossia l’attenzione è posta sul cosa fare con
loro, i contenuti. Certamente essi sono importanti, ma volendo svelare la
sintesi di questo mio intervento, credo sia opportuno prendere altrettanto
seriamente la vita dei giovani, partendo da chi sono qui e ora, passando
attraverso i loro ritmi, insieme alle fragilità e alle ricchezze che si portano
dietro.
La domanda posta
come titolo, risente di varie obiezioni o proposte che ciclicamente riemergono
nel contesto ecclesiale e civile: se la fede è dono di Dio occorre solo mettere
la persona in contatto con essa; all’opposto c’è chi ritiene che occorra un
percorso di assimilazione di dottrine e contenuti vari senza i quali il dono
offerto da Dio rimane inefficace. Per quest’ultimi fede è solo da
intendersi nel suo contenuto documentato dalla tradizione ecclesiale, così che
si vive nella fede quando si conosce questo pacchetto di verità, si è capaci di
esprimerlo in modo abbastanza corretto e ci si impegna ad adeguare la propria
esistenza alle proposte in esso contenute.
Per quanto mi riguarda, proprio perché occorre che le
proposte dei percorsi di fede siano attente e mettano al centro la persona,
credo che oggi occorra far sì che la pastorale consideri adeguatamente
l’apporto delle scienze umane, in particolare di quelle che trattano i temi
dell’educazione e prima fra tutte la psicologia, facendolo a tal punto da
riconoscere come siano, anche se indirettamente, funzionali a un cammino di
crescita nella fede. Quanto appena detto risulta probabilmente una precisazione
non necessaria, in quanto tutto il processo di educazione alla fede non può
avere un procedimento diretto tra educatore ed educando come viene in altri
luoghi, infatti la fede per sua natura è posta innanzitutto sul piano del
rapporto tra la persona e Dio, spazio che non è da altri appropriabile e che
appella il soggetto stesso a una risposta diretta. Per questo occorre affermare
che la fede è un dono, in quanto tale non viene innanzitutto da un’opera di
informazione o riflessione, ma dall’accogliere una Parola di cui siamo
destinatari e che chiede di essere accolta.
Succede poi che essa divenga in me o attraverso altri,
parola umana, nel linguaggio a noi abituale, comprensibile a tutti, così il processo
di salvezza assume in sé, secondo la logica dell’incarnazione, i modi soliti
del vivere comune e degli altri processi educativi tipici della vita
quotidiana. Essenziale diviene quindi l’impegno a servizio della persona per
far sì che le sue capacità possano esprimersi liberamente, aiutando a rendere
chiari i segni concreti della salvezza, ossia rendere capace l’individuo di
rispondere in modo maturo al dono di Dio.
Pur riconoscendo il giusto ruolo a quanto detto, occorre
ricordarsi che la condizione che ci accompagna, sia come persone che come
processi educativi, si porta dietro il peso e i segni del peccato, questo ci
chiede di vigilare sempre affinché fuggiamo dalla tentazione di identificare, con
un solo pur attraente processo umano, il tutto dell’educazione della fede.
Riguardo ai contenuti, un cammino di fede non ha temi
specifici da aggiungere a quelli che la vita già pone; diverso è sicuramente il
modo nel quale ci si pone, quello che conta non sono tanto la raccolta di
diverse informazioni, ma il prendere sul serio la propria storia come luogo
dove Dio agisce e parla, questo chiede una lettura “intelligente”, ossia capace
di andare in fondo a quanto capita fino a raggiungerne il mistero. Questo
sguardo dovrebbe portare a una unità tra fede e vita, non come due prospettive
divergenti, ma come dimensioni orientate insieme e che possono trovare una
sintesi così come è stata realizzata dalla realtà dell’incarnazione di Dio che
si fa uomo, rimanendo al contempo e uno e l’altro, ma in un’unica persona.
Credo che tutto questo sia determinante affinché la nostra
pastorale possa essere efficace, ossia in ascolto accogliente e disponibile
delle ricerche dei giovani che spesso richiedono il saper fare nostri nuovi
criteri interpretativi del loro vissuto fatto di culture, linguaggi e strumenti
variegati rispetto a quelli ai cui siamo solitamente abituati e che spesso ci
trovano parecchio in difficoltà. Il punto di partenza non può essere il rifiuto
di quanto non comprendiamo, neanche una opposizione per partito preso nei
confronti di quanto giudichiamo errato; un corretto inizio chiede il saper
discernere ciò che di bello, buono e vero è presente. Questo porta anche al
cambiamento dei luoghi dell’agire pastorale, essi posso diventare vari e a
volte anche impensati, eppure reali perché lì i giovani vivono, crescono, si
esprimono, crescono nei loro sogni e maturano quei valori di riferimento per la
loro vita di adulti.
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