Mi trovo in una situazione tragicomica, non so se ridere o mettermi
le mani tra i capelli.
Mi capita tra le mani un documento della Conferenza
Episcopale Italiana[1] riguardo
l’educazione dei giovani alla fede, tra le prime parole della sua premessa
indica importante il saper maturare un atteggiamento accogliente nei confronti
dei ragazzi; viene presa come icona di riferimento il dialogo tra Gesù e il
“giovane ricco”. L’invito è quello di accogliere con disponibilità le richieste
forti che ci vengono dal mondo giovanile, anche se spesso il tutto avviene attraverso
modi smaliziati o con silenzi enigmatici, anche quando sembrano diffidenti o
indifferenti verso quanto a loro proposto.
Eppure una domenica mattina, mentre il parroco stava presiedendo
la Messa principale della comunità e io mi trovavo negli spazi esterni della
parrocchia ad accompagnare le attività di un’uscita scout, mi vedo arrivare un
gruppetto di cinque ragazzi di prima superiore. Li conosco bene, ho fatto
insieme con loro il campo estivo, due di loro vengono da un’altra parrocchia e
hanno deciso di continuare il loro cammino qui da noi insieme al gruppo dei
coetanei, sono molto uniti e vanno pazzi per il calcio, vengono regolarmente
agli incontri e alla Messa anche se si fermano sempre un po’ in fondo e in
disparte in una chiesa ampia come la nostra.
Sono ragazzi in gamba, con i quali si dialoga volentieri,
quindi senza problemi mi avvicino loro e chiedo come mai, a Messa ormai
iniziata, siano fuori e non dentro; in modo molto diretto mi dicono che erano
stati invitati ad uscire da un signore che stava partecipando alla
celebrazione, il quale disturbato dalle chiacchiere che facevano li ha invitati
ad andarsene fuori sottolineando che era meglio così visto il loro comportamento.
Loro non hanno avuto problema a riconoscere che non erano attenti, conoscendoli
ci credo così come immagino che non stessero facendo poi chissà che di particolarmente
distraente; non nascosero il fatto di esserci rimasti un po’ male nel come si
erano messe le cose. Io cercai un po’ di mediare rimanendo comunque dalla loro
parte, loro molto bravi nel perdonare senza prendersela, decisero di attendere
un po’ e poi rientrare per continuare la celebrazione e fare la comunione. Così
avvenne, li rividi a fine Messa quando vennero da me a confermarmi che avevano
mantenuto il loro impegno e la loro parola.
Sono molto contento per loro tanto quanto sono arrabbiato
con questo anonimo signore, certamente non rappresentativo della Chiesa, ma
forse una parte di essa con la testa e il cuore un po’ troppo duri. Capite che
il contrasto tra quanto ricordato sopra dai nostri vescovi e questo esempio
concreto di vita fa nascere un po’ di scintille. Continuiamo a lamentarci che i
ragazzi e i bambini non vengono più a Messa, quando poi ci vengono a quei pochi
diciamo di uscire, di stare fermi, zitti, ascoltare cose un po’ strane che non
centrano con la loro vita così che noi adulti possiamo goderci la messa in
silenzio facendoci gli affari nostri e così via. Siamo comunità schizofreniche
o ipocrite (credo che Gesù ci chiamerebbe così), perché ci riempiamo di belle
parole e poi la nostra vita rimane come prima, ci diciamo il cammino da fare ma
non iniziamo la conversione.
Come prete di questa comunità riprenderò il discorso con questi
ragazzi e chiederò scusa, così come credo di doverlo fare con i loro genitori
che hanno decido di condividere con noi il cammino di educazione alla fede in
una età tanto delicata, inoltre quando mi capiterà inviterò la comunità ad
essere più attenta alla cosa.
So che non sempre è semplice, dopo un lungo periodo dove il
sistema educativo si è basato sullo sviluppo di figure specializzate, oggi
richiede una grossa capacità di sintesi che non è di tutti, in più lavorare con
gli adolescenti è molto dura, è proprio un servizio e quasi una chiamata al
martirio se essa è scelta liberamente e accettata nelle condizioni di
difficoltà che presenta.
Rimane il fatto che ci si trova spesso a convivere in una
ambivalenza, come Chiesa siamo chiamati ad abitarla, il modo per farlo è quello
di sapere creare relazioni e una presenza che va quindi anche fuori le “mura”
che delimitano i nostri spazi, stando attenti da una parte a non adeguarci a
certe cose tipiche del mondo d’oggi, ma dall’altro evitando di portare fuori
pari pari linguaggi, riti, usi ed altro tipici del nostro mondo ecclesiale.
[1] CEI, Educare i giovani alla fede - Orientamenti
emersi dai lavori della XLV Assemblea Generale, 1999.
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