lunedì 26 ottobre 2015

Di anno in anno senza stancarsi

Mi trovo all’inizio di un nuovo anno pastorale, riprendono le attività, mi trovo da quest’anno in alcune parrocchie nuove. Riunisco intorno a me i catechisti, ormai educatori, del gruppo che l’anno precedente ha “fatto la Cresima”. Da tutti sorge la domanda: quanti saranno? Si sa che in questo momento della vita dei nostri ragazzi, sono tante le domande che urgono, tanti gli inviti che si accumulano nel cuore, alcuni di essi portano lontano o da altre parti rispetto ai gruppi che si trovano in parrocchia. La stessa Cresima segna la fine del cammino di iniziazione cristiana e richiederebbe un nuovo inizio maggiormente consapevole nel rapporto con Dio, la cosa non è però scontata e tante cose riguardo a questo argomento vengono rimesse in discussione in una fede, non più basata su quello che altri mi dicevano di crede, ma su quello che a fatica ora i ragazzi riescono a capire e interiorizzare.
Il gruppo di educatori che mi trovo davanti si divide in due parti: la prima molto ottimista visto il cammino fatto negli anni prima che però fatica un po’ a vedere il cambiamento in atto, i secondi invece si presentano come i concreti della situazione avanzando percentuali raccolte da esperienze passate e parrocchie vicine per sostenere il grosso calo che chiederà di rivedere molte cose.
Tanti o pochi non importa, c’è sempre qualcuno da raggiungere. Se saranno molti sarò contento, ma allo stesso modo dispiaciuto se questo ci metterà nella condizione di essere talmente soddisfatti di non accorgerci di chi manca, proprio loro che forse ne avevano più bisogno. Se saranno pochi sarò contento lo stesso, la fede non è scontata né automatica, c’è sempre da stupirsi anche per un solo ragazzo che mantiene aperto uno spiraglio a Dio, ma sarò dispiaciuto se questo ci porterà a una qualche forma di depressione pastorale, al ritirare i remi in barca, al concentrarci sui pochi rimasti non vedendo i tanti assenti.
Ad altri educatori che accompagnavano gruppi già da anni, ho chiesto di ricominciare le attività preoccupandosi di invitare anche coloro che nei nostri discorsi chiamiamo “persi”. Essi infatti non sono tali, non lo sono per Dio, non devono esserlo per noi, anche se di fatto sono impegnati in altri luoghi con ricerche lontane da quelle percorse da noi.
Questa perseveranza vale la propria fatica, la parabola dei figliol prodigo è vera; una educatrice una sera durante una pizzata mi diceva: don vedi quei due ragazzi, sono nuovi. In realtà non erano nuovi, erano semplicemente ritornati, il Vangelo a cui facevo sopra riferimento direbbe che sono tornati in sé. Occorre non stancarsi nel rilanciare le proposte, nel rimanere aperti a modi anche diversi di vivere il rapporto con il gruppo.
Nei vari gruppi che seguo, c’è anche chi dice di lasciare perdere, triste sono uscito da incontri con educatori che mi comunicavano che uno piuttosto che un altro era meglio che non venisse, altri che non valeva la pena spendere soldi per loro, infine mi si invitava ad essere più realista… se è così, io scelgo di rimanere sognatore e lo spero per tutti coloro che si impegnano nell’educazione. Non è però fantasia, non è illusione, è la speranza che della quale si nutre chi mette il Vangelo alla base della propria vita; che trova in esso la fonte e il modo di intraprendere percorsi nuovi rispetto a come il mondo vuole farti piegare.
Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”»
(Lc 13, 6-9).
Quanto tempo impiegato negli anni di catechismo a insegnare delle cose, quanti inviti a partecipare alla messa della domenica, quante ore sacrificate ad altre cose e ora i ragazzi non vengono più: lasciamo perdere? È la tentazione del tale di cui si parla nel brano appena riportato, tutto è stato piantato per bene, ma i frutti mancano. È stato paziente, ha sopportato per tre anni il tutto, ma la misura sembra ormai colma. A tutto c’è un limite! Arriva la sentenza: togliamolo di mezzo. Perché occuparsi ancora di lui, perché usare energie che potremmo usare per fare altro di utile?
Beato il servo che interviene, forse pazzo per qualcuno, chiede un'altra possibilità, per ottenerla promette il proprio impegno nel prendersi cura di lui come non farebbe per tutte le altre piante a lui affidate.
Un anno in più, sarà abbastanza? Non importa. Io già lo vedo quel servitore del Vangelo, l’anno seguente, se le cose dovessero andare male, insistere per un'altra ulteriore occasione. Di anno in anno senza stancarsi.
Tutta questa è anche la parabola per noi che siamo impegnati nell’educazione delle nuove generazioni. Darsi da fare invitando i profeti di sventura, che non mancano quando si parla di giovani, a un nuovo modo di vedere le cose, a una attesa che può realmente essere efficace. Nel continuare a prendersi cura, nel confidare nella possibilità di tutti di dare frutto secondo i propri tempi e i propri cammini. Beati noi impegnati nel campo della vita dei nostri ragazzi, non a cambiarla, ma a renderla più gustosa, cercando il nutrimento specifico di cui ciascuno ha bisogno.
Io sogno, e intravvedo, il giorno nel quale gioirò nel gustare il frutto buono ormai giunto a maturità, quella di una vita cresciuta e ora pronta a spendersi. E se non sarò io ad assaporarlo, gioisco per quanti potranno farlo, sperando trovino in esso la forza di continuare, di anno in anno senza stancarsi.

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