Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni
nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase
turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti
e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: "Tutti costoro che parlano non
sono forse Galilei? (At 2,5-7).
Qualche tempo fa ho incontrato un giovane appena
maggiorenne, da ragazzo aveva frequentato il catechismo, ma arrivato alla
quinta elementare aveva lasciato tutto, ora per via di dover fare da padrino a
suo cugino stava frequentando il corso per adulti di preparazione alla Cresima,
un gruppetto che mette insieme persone che desiderano ricevere questo
sacramento.
Era un po’ che non lo vedevo, anche se non ci si era persi
del tutto, in un paese come il nostro non è semplice cancellare le proprie
tracce. Gli chiesi come stava, tra una cosa e l’altra arrivammo a parlare anche
della preparazione alla Cresima, non lo vedevo molto convinto; arrivai a
scoprire che la questione riguardava il fatto che capiva poco di quello che gli
veniva detto.
Mi feci un po’ raccontare di cosa parlavano, mi fece vedere
alcune schede, mi disse cosa non capiva. Dal punto di vista dei contenuti era
tutto giusto, il problema mi parlano più le parole e i termini usati che, per
noi addetti ai lavori, sono pane quotidiano, ma non costituiscono più il
sottofondo culturale di una società che ormai parla in altri modi e con altri
riferimenti filosofici di fondo.
Le parole usate erano teologicamente giuste, ma non bastava.
Mi venne in mente il brano degli Atti che avete letto all'inizio, di come il
primo annuncio fatto dagli apostoli senza la presenza di Gesù aveva saputo
parlare a gente un po’ di tutto il mondo, superando le distanze di lingua e
cultura. Mi dissi: oggi per noi, il dono delle lingue, è anche la capacità di
parlare nuovi linguaggi.
Credo che i segni che come Chiesa da sempre e ancora oggi
poniamo, mantengano la propria forza, le parole il proprio valore, ma hanno
perso il loro significato relazionale: non riescono più a favorire l’incontro
tra la persona comune e Dio. Si tratta di chiedere allo Spirito che ci aiuti,
in coerenza con la tradizione, a parlare linguaggi nuovi che sappiano mettere
in contatto con Dio, far sentire accolte le persone senza chiedere loro prima
di compiere un "corso" di alfabetizzazione teologica.
La cosa riguarda certamente il saper parlare secondo le
novità che lo sviluppo contemporaneo comporta, ma penso soprattutto al non dar
per scontato che il vocabolario ecclesiastico sia di per sé comprensibile, esso
non rappresenta un dogma ma è a servizio del deposito della fede perché venga
sempre meglio compresa e accolta.
Mi sembra anche l’invito rivolto da papa Francesco durante
un suo colloquio con i Superiori Generali dei vari istituti di vita consacrata.
Chi lavora con i giovani non può fermarsi a dire cose troppo ordinate e
strutturate come un trattato, perché queste cose scivolano addosso ai ragazzi.
C’è bisogno di un nuovo linguaggio, di un nuovo modo di dire le cose. Oggi Dio
ci chiede questo: di uscire dal nido che ci contiene per essere inviati.
Se come educatori alle fede delle nuove generazioni
accogliamo questo invito, il compito è presto dato. Non è importante prima di
tutto dire delle cose e in ogni caso non si parte da lì. Non è possibile
continuare a fare incontri dove basta guardare il volto dei ragazzi per capire
che quanto viene detto non li tocca, questo non perché siano distratti ma
perché li distraiamo noi con cose poco vitali, meglio in questi casi avere il
buon senso di fermarsi, ma purtroppo capita di incontrare chi parla più per sé
stesso che per i giovani.
Occorre, non da soli, mettersi intorno a un tavolo, convinti
della bellezza e della validità della bella notizia della quale siamo portatori,
chiedendoci come essa oggi può essere detta ai ragazzi concreti che conosciamo
e che abbiamo tra le mani, con quello che passano nel resto della loro vita,
nel loro essere esposti a un mondo che a loro parla in un certo modo. In
sintesi: occorre essere concreti!
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