C’è una parabola di Gesù nel Vangelo di Marco che credo sia
solidale e faccia bene ai tanti impegnati in attività educative con i ragazzi.
In quel tempo, Gesù
diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno;
dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli
stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la
spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito
egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura» (Mc4,26-29).
Mi capita spesso di incontrare persone che si lamentano dei
figli, o dei ragazzi in generale, perché non vedono in loro i risultati che
tanto impegno e preparazione degli adulti hanno cercato di procurare. Si
chiedono dove hanno sbagliato, a volte si sentono colpevoli, altre volte danno
la colpa ad altri. C’è involontariamente il rischio di considerare il frutto
come qualcosa di automatico. Ahimè spesso non è così; capita quindi di andare
in crisi, o prendersela con gli adolescenti oppure abbandonare tutto. Il seme
piantato può essere il migliore al mondo e piantato in modo tecnicamente
corretto, ma questo non porta in automatico che cresca da per sé; lo fa se trova
terra buona, però non sempre la vita, l’umanità che ci troviamo tra le mani rispecchia
l’ideale prefissatoci concedendo il nutrimento necessario.
Nel mio oratorio, il campo da calcio è su un pezzo di terra
da cui sbucano rottami, abbiamo provato a toglierli ma ne uscivano sempre di
nuovi, per poi scoprire alla fine che era una terra così argillosa da diventare
deserta e dura in tanti punti. La nostra umanità è spesso così, occorre
lavorare non solo nel seminare cose buone in modo buono, ma nel preparare il terreno,
per poi a volte fare come si può non potendo sempre fare l’ideale. Nonostante
quello che possa accadere, credo ci voglia in partenza, una grande fiducia per
la capacità della vita dei nostri ragazzi di portare frutto a proprio tempo.
Il testo evangelico prevede che quando il frutto sia maturo
avvenga la raccolta, il versetto andrebbe tradotto meglio così: "quando il frutto lo permette"
avviene la raccolta. A volte mi capita di non incontrare questa attenzione, i
ragazzi sono molto diversi tra di loro e se pur parte di uno stesso cammino,
non è detto che maturino insieme. Occorre quindi un occhio attento per saper
cogliere quanto matura e saper anche attendete che accada, mettendo in conto
anche la possibile sterilità del tutto.
Quando raccoglievo pomodori con mio nonno, passavamo più e
più volte in un certo lasso di giorni, per controllare e raccogliere i pomodori
maturi. Oggi si calcola il momento migliore, si parte con una macchina che
raccoglie tutto distruggendo la pianta ed eliminando quelli verdi così da
perderli. Parlando di educazione preferisco certamente mio nonno rispetto ad
alcuni metodi moderni che mirano alla massimizzazione del risultato ma perdono
l’attenzione al bene del singolo frutto.
Tanti si chiedono: ma ne vale la pena? Difronte a un giovane
che dimostra pigramente la propria indifferenza, vale la pena seminare? Credo
di sì, del resto Gesù stesso ha fatto così: Egli
è morto per noi perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con
lui. La compagnia di Dio è continua, la sua morte è vita anche per chi non
se ne accorge: dorma o vegli, di notte o
di giorno, il seme germoglia e cresce. Credo che queste parole ci diano una
forte dose di speranza e di fiducia, soprattutto a chi vive l’impegno educativo
non come lavoro, ma come vocazione.
La forza che ci viene da questa consapevolezza, è quella di
confidare nella crescita, un invito positivo che introduce a qualcosa di bello
che desidera compiersi nella vita. Certo rimane l’imprevisto insieme anche
all’incognita del possibile fallimento. Eppure l’invito è ugualmente, farsi
compagni di viaggio di ogni ragazzo, perché ci viene detto che il mistero a
servizio del quale siamo, è più forte rispetto a quanto si possa percepire.
A quanti condividono con me il compito di educare alla fede,
dico che il gettare il Vangelo nella vita, è far sì di mettere qualcosa di
buono nel terreno, nonostante possa incontrare delle povertà, possiamo stare
tranquilli. Tante volte invece trovo troppa agitazione, segno sicuramente della
passione che ci anima, ma possibile indicazione anche di poca fiducia sia in
Dio, sia in colui che è destinatario del nostro impegno.
Nonostante tutto capita anche di essere stupiti in positivo
di fronte a gesti generosi, slanci altruistici, che gli adolescenti non ci fanno
mancare. A volte ci lasciano stupefatti e senza parole, senza spiegazione, come
l’uomo della parabola: come il tutto sia accaduto egli stesso non lo sa.
Il non sapere, rappresenta qualcosa di necessariamente
legalo all’umiltà che deve accompagnare il servizio educativo, perché non siamo
noi ma è che “il terreno produce spontaneamente”.
Questa parabola ci parla sicuramente di come Dio lavora in
noi e nei nostri giovani, lo fa in modo grande. Anche in mezzo alle paure e
alle aridità.
Nella nostra opera, come nella parabola, non dovrebbe
esserci segno di dubbio. Non vuole essere una magica esortazione per cancellare
il nostro impegno o scaricare la colpa ad un altro, ma perché nel nostro dovere
non dubitiamo di Dio.
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