In
questo momento sto preparando due gruppi alla
Cresima, da tante parti mi arrivano le preoccupazioni riguardo al fatto che in tanti lasceranno il cammino intrapreso fino ad ora, alcune statistiche dicono che rappresentano i tre quarti dei ragazzi. Non che io non sia dispiaciuto, ma credo sia da cogliere come un dato fisiologico, non perché mi sia arreso, ma perché fa parte di un cammino a volte anche necessario per poter rileggere e integrare i contenuti della fede in un’ottica personale, rispetto a quanto fino ad ora si è spesso ricevuto per tradizione.
Cresima, da tante parti mi arrivano le preoccupazioni riguardo al fatto che in tanti lasceranno il cammino intrapreso fino ad ora, alcune statistiche dicono che rappresentano i tre quarti dei ragazzi. Non che io non sia dispiaciuto, ma credo sia da cogliere come un dato fisiologico, non perché mi sia arreso, ma perché fa parte di un cammino a volte anche necessario per poter rileggere e integrare i contenuti della fede in un’ottica personale, rispetto a quanto fino ad ora si è spesso ricevuto per tradizione.
La
vera preoccupazione dovrebbe essere un’altra, che ci interpella sia su quelli
che rimangono, ma soprattutto su quelli che lasciano. Ovunque siano, qual è il
messaggio che si portano dietro riguardo Dio e la comunità? Perché se seminiamo
bene, questa è la migliore eredità che possiamo lasciare loro, nonché il
necessario da cui attingere per trovare la casa del Padre, qualcosa di molto
diverso da un pacchetto di norme che vengono da Dio e che la Chiesa vigila
perché vengano rispettate, altrimenti non fa una grande differenza quando il
cammino si dovesse interrompere.
Una
logica quantitativa, che conta le presenze e mira alla massa per essere
rassicurati nel proprio impegno, dovrebbe essere sostituita da un criterio che
ricerca la qualità dove è la fedeltà alla persona e al messaggio di Gesù a
fondare la ragione del nostro impegno. Mentre la quantità è spesso
immediatamente misurabile, così non è per la qualità.
La
domanda decisiva riguarda quindi quale fede comunichiamo. Al riguardo potremmo
farci aiutare da un episodio divenuto famoso come l’incontro con il “giovane
ricco” che prendiamo in esame secondo la formulazione che ne dà l’evangelista
Marco.
Mentre
[Gesù] andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi
in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare
per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami
buono? Nessuno è buono, se non Dio solo» (Mc 10,17).
La domanda che rivolge a Gesù nel testo
italiano riguarda in modo diretto la vita eterna, occorre però tenere presente
che nella cultura ebraica, quindi nella lingua con la quale è stata scritta,
essa non fa riferimento solo alla vita dopo la morte, ma riguarda l’esistenza
di oggi che vuole misurarsi con una pienezza e ricerca di senso che non è
capace di darsi da sola, capace di entrare nell’eterno.
Nella
mia esperienza accanto ai giovani, ho spesso ritrovato la stessa richiesta se
pur tradotta in modi molto diversi tra loro, sono sempre occasioni in cui ci si
sente un po’ in difficoltà sapendosi di fronte a qualcosa di grosso: il
desiderio e la ricerca d’infinito, che se tematizzata e aiutata a crescere è
ricerca di Dio. Sembra che l’unica domanda che conta sia: cosa devo fare per
avere una vita bella, buona, vera?
Un
giorno succede che la ricerca di questo giovane del Vangelo, va spedita
direttamente verso Gesù, perché proprio lui? Lo attira la bontà della sua vita,
la verità delle sue parole, la bellezza di quel Regno di cui tanto parla e che
dice essere vicino. È da qui che nasce la domanda che gli rivolge, vedendo Gesù
questo ragazzo si chiede: e per me perché no? Un interrogativo che forse non si
era mai posto, ma ora nasce così spontaneo di fronte a una vita, quella di
Gesù, che si pone in modo talmente radicale e allo stesso tempo bello.
Certamente
questo giovane non coglie immediatamente il legame che il tutto ha con Dio, è
per questo che Gesù nella risposta desidera subito sottolinearlo, chiarendo che
la domanda l’ha rivolta a lui, ma dietro c’è Dio, quel Padre buono la cui
relazione fonda ciò che attrae in Gesù.
Possiamo
quindi riconoscere come sia una cosa propria dei nostri ragazzi saper
riconoscere e andare incontro a quegli adulti che mostrano una qualità umana
alle cui spalle c’è la relazione con Dio; c’è un grande bisogno di adulti
buoni.
Non
necessariamente le tante domande di vita che ci rivolgono i giovani, sono
immediatamente caratterizzabili come “religiose”, spesso in apparenza sembrano
riguardare aspetti anche solo “superficiali” della vita. Sono però già in sé
tutte ricerche di vita, capaci quindi di essere manifestazione di colui che è
Via, Verità e Vita. Tanti vengono a parlarci e chiederci non di cose riguardo
il paradiso o la Bibbia, ma piuttosto di quanto accade loro, occorre sapere che
anche queste sono domande “religiose”.
Le
risposte che diamo loro, non necessariamente devo essere bei pacchetti
incartati di “religione”, possono mantenere il tono e il contenuto della
domanda, uno stile definiamolo “laico”, ma capace di ricondurre alla relazione
con Dio come sua presenza nella vita.
Le
scienze umane ci aiutano a capire che il viaggio dei nostri ragazzi verso l’età
adulta avviene attraverso una progressiva “autonomia” che richiede anche
strappi e abbandoni; non si diventa adulti senza lasciare il mondo
dell’infanzia, i suoi ritmi e le sue modalità, le sue esperienze e regole. Non
possiamo nasconderci che tra le altre, alcune delle esperienze caratterizzanti
l’età infantile, siano proprio il catechismo, l’oratorio, ecc.; va quindi messo
in conto e riletto in un ottica più ampia l’abbandono di tanti, non come
rifiuto di Dio e del cammino proposto, ma come passo necessario per molti alla
crescita. Visto che crediamo molto nel catechismo e ci impegniamo perché vi
partecipi il maggior numero di ragazzi possibile (e questo è una cosa buona),
dobbiamo allora mettere in conto a un certo punto la “partenza” dei due terzi e
più di coloro che giungono all’età fatidica della Cresima. L’ansia di questo a
volte ci rende ciechi e non ci fa vedere che forse la vera questione non è
l’abbandono, ma lo scoprirci impreparati per il ritorno; ossia la mancanza di
proposte nuove a chi è uscito senza riproporre le stesse di quando se ne è
andato. Credo ci voglia da parte di tutti preghiera e attenzione alla voce
dello Spirito Santo perché ci aiuti ad essere creativi, ad aprire nuove vie;
credo sia necessario integrare fortemente la nostra “pastorale della
continuità”.
Mi
permetto di prendere l’icona evangelica del figlio prodigo (Lc 15,11-32) e di
interpretarla in modo libero continuando il discorso sopra iniziato; a volte mi
sembra che siamo molto preoccupati di far di tutto perché questo figlio giovane
non se ne vada di casa, ma nonostante i nostri forzi e pur facendo ogni tipo di
proposta possibile e immaginabile, lui parte lo stesso. Che strano questo
impegno pastorale concentrato per evitare la fuga a confronto invece con il
padre della parabola che lascia andare il figlio senza battere ciglio; certo lo
avrà fatto con tanto timore, ma anche scommettendo e sperando in quanto fino ad
ora gli aveva insegnato, continuando comunque a rimanere sulla porta sempre
attento a non perdere segni di un possibile ritorno. Così è la situazione di
tanti che dopo un periodo di allontanamento e grazie al nascere di una maturità
diversa e di domande forti, sentono il desiderio di riscoprire la fede. Questo
ci porta allo stesso punto di quanto detto più sopra: come accogliere chi
ritorna, senza ostinarsi inutilmente ad evitarne la partenza?
Nonostante
tutto per fortuna qualcuno resta “a casa” nei nostri gruppi parrocchiali, come
fa il figlio maggiore della parabola e questo ci rende giustamente contenti, ma
il lavoro non manca anche con loro infatti mi sembra che il figlio maggiore
resti più per convenienza che per convinzione e sia comunque anch’esso figlio
del suo tempo; da qui il cammino perché resti: non da servo ma da figlio, non
per abitudine ma per scelta, non per “sedersi” ma per diventare testimone.
Nessun commento:
Posta un commento