venerdì 26 gennaio 2018

Sete di vita eterna

In questo momento sto preparando due gruppi alla
Cresima, da tante parti mi arrivano le preoccupazioni riguardo al fatto che in tanti lasceranno il cammino intrapreso fino ad ora, alcune statistiche dicono che rappresentano i tre quarti dei ragazzi. Non che io non sia dispiaciuto, ma credo sia da cogliere come un dato fisiologico, non perché mi sia arreso, ma perché fa parte di un cammino a volte anche necessario per poter rileggere e integrare i contenuti della fede in un’ottica personale, rispetto a quanto fino ad ora si è spesso ricevuto per tradizione.
La vera preoccupazione dovrebbe essere un’altra, che ci interpella sia su quelli che rimangono, ma soprattutto su quelli che lasciano. Ovunque siano, qual è il messaggio che si portano dietro riguardo Dio e la comunità? Perché se seminiamo bene, questa è la migliore eredità che possiamo lasciare loro, nonché il necessario da cui attingere per trovare la casa del Padre, qualcosa di molto diverso da un pacchetto di norme che vengono da Dio e che la Chiesa vigila perché vengano rispettate, altrimenti non fa una grande differenza quando il cammino si dovesse interrompere.
Una logica quantitativa, che conta le presenze e mira alla massa per essere rassicurati nel proprio impegno, dovrebbe essere sostituita da un criterio che ricerca la qualità dove è la fedeltà alla persona e al messaggio di Gesù a fondare la ragione del nostro impegno. Mentre la quantità è spesso immediatamente misurabile, così non è per la qualità.
La domanda decisiva riguarda quindi quale fede comunichiamo. Al riguardo potremmo farci aiutare da un episodio divenuto famoso come l’incontro con il “giovane ricco” che prendiamo in esame secondo la formulazione che ne dà l’evangelista Marco.
Mentre [Gesù] andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo» (Mc 10,17).
La domanda che rivolge a Gesù nel testo italiano riguarda in modo diretto la vita eterna, occorre però tenere presente che nella cultura ebraica, quindi nella lingua con la quale è stata scritta, essa non fa riferimento solo alla vita dopo la morte, ma riguarda l’esistenza di oggi che vuole misurarsi con una pienezza e ricerca di senso che non è capace di darsi da sola, capace di entrare nell’eterno.
Nella mia esperienza accanto ai giovani, ho spesso ritrovato la stessa richiesta se pur tradotta in modi molto diversi tra loro, sono sempre occasioni in cui ci si sente un po’ in difficoltà sapendosi di fronte a qualcosa di grosso: il desiderio e la ricerca d’infinito, che se tematizzata e aiutata a crescere è ricerca di Dio. Sembra che l’unica domanda che conta sia: cosa devo fare per avere una vita bella, buona, vera?
Un giorno succede che la ricerca di questo giovane del Vangelo, va spedita direttamente verso Gesù, perché proprio lui? Lo attira la bontà della sua vita, la verità delle sue parole, la bellezza di quel Regno di cui tanto parla e che dice essere vicino. È da qui che nasce la domanda che gli rivolge, vedendo Gesù questo ragazzo si chiede: e per me perché no? Un interrogativo che forse non si era mai posto, ma ora nasce così spontaneo di fronte a una vita, quella di Gesù, che si pone in modo talmente radicale e allo stesso tempo bello.
Certamente questo giovane non coglie immediatamente il legame che il tutto ha con Dio, è per questo che Gesù nella risposta desidera subito sottolinearlo, chiarendo che la domanda l’ha rivolta a lui, ma dietro c’è Dio, quel Padre buono la cui relazione fonda ciò che attrae in Gesù.
Possiamo quindi riconoscere come sia una cosa propria dei nostri ragazzi saper riconoscere e andare incontro a quegli adulti che mostrano una qualità umana alle cui spalle c’è la relazione con Dio; c’è un grande bisogno di adulti buoni.
Non necessariamente le tante domande di vita che ci rivolgono i giovani, sono immediatamente caratterizzabili come “religiose”, spesso in apparenza sembrano riguardare aspetti anche solo “superficiali” della vita. Sono però già in sé tutte ricerche di vita, capaci quindi di essere manifestazione di colui che è Via, Verità e Vita. Tanti vengono a parlarci e chiederci non di cose riguardo il paradiso o la Bibbia, ma piuttosto di quanto accade loro, occorre sapere che anche queste sono domande “religiose”.
Le risposte che diamo loro, non necessariamente devo essere bei pacchetti incartati di “religione”, possono mantenere il tono e il contenuto della domanda, uno stile definiamolo “laico”, ma capace di ricondurre alla relazione con Dio come sua presenza nella vita.
Le scienze umane ci aiutano a capire che il viaggio dei nostri ragazzi verso l’età adulta avviene attraverso una progressiva “autonomia” che richiede anche strappi e abbandoni; non si diventa adulti senza lasciare il mondo dell’infanzia, i suoi ritmi e le sue modalità, le sue esperienze e regole. Non possiamo nasconderci che tra le altre, alcune delle esperienze caratterizzanti l’età infantile, siano proprio il catechismo, l’oratorio, ecc.; va quindi messo in conto e riletto in un ottica più ampia l’abbandono di tanti, non come rifiuto di Dio e del cammino proposto, ma come passo necessario per molti alla crescita. Visto che crediamo molto nel catechismo e ci impegniamo perché vi partecipi il maggior numero di ragazzi possibile (e questo è una cosa buona), dobbiamo allora mettere in conto a un certo punto la “partenza” dei due terzi e più di coloro che giungono all’età fatidica della Cresima. L’ansia di questo a volte ci rende ciechi e non ci fa vedere che forse la vera questione non è l’abbandono, ma lo scoprirci impreparati per il ritorno; ossia la mancanza di proposte nuove a chi è uscito senza riproporre le stesse di quando se ne è andato. Credo ci voglia da parte di tutti preghiera e attenzione alla voce dello Spirito Santo perché ci aiuti ad essere creativi, ad aprire nuove vie; credo sia necessario integrare fortemente la nostra “pastorale della continuità”.
Mi permetto di prendere l’icona evangelica del figlio prodigo (Lc 15,11-32) e di interpretarla in modo libero continuando il discorso sopra iniziato; a volte mi sembra che siamo molto preoccupati di far di tutto perché questo figlio giovane non se ne vada di casa, ma nonostante i nostri forzi e pur facendo ogni tipo di proposta possibile e immaginabile, lui parte lo stesso. Che strano questo impegno pastorale concentrato per evitare la fuga a confronto invece con il padre della parabola che lascia andare il figlio senza battere ciglio; certo lo avrà fatto con tanto timore, ma anche scommettendo e sperando in quanto fino ad ora gli aveva insegnato, continuando comunque a rimanere sulla porta sempre attento a non perdere segni di un possibile ritorno. Così è la situazione di tanti che dopo un periodo di allontanamento e grazie al nascere di una maturità diversa e di domande forti, sentono il desiderio di riscoprire la fede. Questo ci porta allo stesso punto di quanto detto più sopra: come accogliere chi ritorna, senza ostinarsi inutilmente ad evitarne la partenza?
Nonostante tutto per fortuna qualcuno resta “a casa” nei nostri gruppi parrocchiali, come fa il figlio maggiore della parabola e questo ci rende giustamente contenti, ma il lavoro non manca anche con loro infatti mi sembra che il figlio maggiore resti più per convenienza che per convinzione e sia comunque anch’esso figlio del suo tempo; da qui il cammino perché resti: non da servo ma da figlio, non per abitudine ma per scelta, non per “sedersi” ma per diventare testimone.

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