In questi giorni, in vista della Cresima ormai prossima,
abbiamo organizzato un ritiro di due giorni con il gruppo dei ragazzi che vi si
stanno preparando. Io li ho raggiunti, un po’ trafelato, avevano già iniziato
le attività e ora stavano facendo merenda, li abbiamo poi radunati nel salone
per dare inizio al momento “serio”. Diversamente dalle nostre aspettative, nonostante
tutti gli sforzi non è stato possibile combinare quasi niente, sono stato messo
duramente alla prova nella mia pazienza e anche nel pensare che la cosa
migliore sarebbe stata se alcuni non fossero venuti o come poterli arginare o
“punire”.
Non voglio ora soffermarmi sui motivi che portano i ragazzi
ad assumere certi comportamenti, ma desidero concentrarmi su come io come
educatore e noi come adulti viviamo e affrontiamo questi momenti. Sono occasioni che capitano sempre più di
frequente un po’ in tutti gli ambiti istituzionalmente deputati all’educazione
e all’istruzione, spesso essi ci trovano anche spaesati e non pronti perché
possono esplodere all’improvviso e così come sono iniziati anche finire.
Sono sempre occasioni molto difficili nelle quali stare, per
fortuna il cammino di questi anni mi ha aiutato abbastanza alla svelta a non
recriminare solo su di loro, ma a concentrarmi su come noi gestiamo il tutto,
perché il nostro metodo possa essere rispettoso del cammino dei ragazzi. È di
questo che ora voglio parlare facendomi anche aiutare da una lettera[1] scritta
da don Bosco al suo istituto.
Quando ci troviamo in queste occasioni, desidereremmo tanto
avere regole e norme chiare e condivise da applicare, ma ahimè non è così.
Normalmente il criterio del “prevenire è meglio che curare” dovrebbe essere ciò
che ci muove, evitando così fin dalla fase della progettazione, le occasione
che già sappiamo che rischiano di esporre i ragazzi a situazione che faticano a
gestire. Capita però, a volte obbligati altre volte per disattenzione, di non
aver altra scelta e di trovarci a gestire delle criticità causate dal faticare
a gestire l’atteggiamento di certi ragazzi.
Occorre innanzitutto uscire dal ruolo di un certo fare l’educatore
che crea troppa distanza tra noi e i ragazzi, quasi come se dovessimo tenere uno
stile da professionisti che si rivolgono a clienti della propria azienda, siamo
più padri che non istruttori. È utile anche riconoscere che tante volte
l’arrabbiarci nasce dallo scegliere la via più semplice, così da dare sfondo
alla nostra frustrazione; è il voler fare meno fatica che ci porta ad assumere
certi atteggiamenti che non sono però il meglio da offrire ai nostri ragazzi.
Si fa prima a urlare e a intimorire che non prendersi il tempo di capire e
persuadere chi abbiamo davanti, rimanendo fermi in quanto proponiamo, ma sapendo
allo stesso tempo mantenere la bontà dentro di noi.
Don Bosco giustamente nota, che molto spesso, piuttosto che
lasciare che l’ira tiri fuori da noi il peggio insieme a parole che non servono
a noi che le diciamo e fanno male a chi le riceve, è meglio fermarsi chiedendo
aiuto a Dio per sé e per chi ci sta mettendo alla prova.
Una volta che si è riusciti a creare un certo rapporto di
fiducia con i ragazzi, stando attenti a non cadere nel ricatto affettivo, si
può fare leva piuttosto che sulla minaccia di una punizione, nel mostrare come
certi comportamenti danneggiano il rapporto di stima reciproca che si è creato;
quindi non è tanto il ruolo che si occupa la cosa che conduce all’obbedienza,
ma la relazione che si sa intessere. Per rendere il tutto possibile ci vuole
pazienza, non improvvisazione, insieme anche alla ricollocazione del nostro
posto che deve essere in mezzo e vicino ai ragazzi e non nel ritagliarci a
piacimento i nostri momenti.
Un’altra attenzione nella quale spesso possiamo trovarci
mancanti, consigliati male dall’impazienza e dalla rabbia del momento, è che
gli interventi correttivi andrebbero fatti non davanti a tutti e sempre e in
ogni caso senza niente che possa denigrare o mettere in cattiva luce il ragazzo
oggetto dell’intervento. Per assurdo anche la punizione e il rimprovero occorre
che vengano fatti con gentilezza.
Capita a volte di essere obbligati a intervenire con
severità, prendendo provvedimenti forti, l’esperienza insegna che questa cosa
al massimo riesce ad arginare momentaneamente la cosa, ma non ne è la
soluzione, cosa che si raggiunge, anche se attraverso tanta pazienza da parte
nostra, se sappiamo amare.
Spesso gli adolescenti non si limitano a dire di no o a
manifestare la propria contrarietà, mettono piuttosto in atto una serie di
rappresaglie che si distribuiscono in diverse occasioni e momenti, nei quali
possiamo cogliere la sfida che come adulti ci viene lanciata. Capita a tanti
ragazzi, anche se in momenti e modi diversi, di trovare una grossa differenza
tra come percepiscono le cose loro rispetto al modo di presentarlo da parte
nostra, così che si sentono un po’ bloccati nella loro andare un po’ in base a
tentativi per sperimentare se quanto sentono ha senso o meno.
Chi disobbedisce può essere spinto a farlo dal non ritenere
più adeguate le regole che fino ad ora avevano regolato i giochi, così che
l’educatore è chiamate a dichiarare decadute le regole di prima per costruire
un nuova “Magna Charta” che è anche prova della consapevolezza di aver colto
che ora davanti, non cui sono più i bambini di una volta, ma giovani
adolescenti nuovi nelle loro ricerche e nell’identità.
Questo non appiana i contrasti che possono rimanere anche
all’ordine del giorno, ma se si riesce a lavorare affinché il clima rimanga di
accoglienza, il tutto può rientrare entro una convinzione di entrambe le parti,
che si tratta di una cosa legata alla crescita e a questo momento, e non il
volersi fare del male.
Le tante volte che insisto nel consigliare di identificarsi,
anche se sembra assurdo, con le istanze che emergono dai ragazzi rinunciando a
alla certezza autoreferenziale di essere nel giusto, non è perché voglio
demolire le basi storiche del processo educativo, ma le voglio rafforzare
invitando tutti noi a una maggiore competenza nelle relazioni, preparandosi
così da saper stupire il ragazzo prendendolo contropiede con le nostre
reazioni, che sa tendere una mano e comunicare che è meglio lavorare insieme e accordarsi
per una tregua costruttiva piuttosto che per una guerra dove ci saranno vittima
da entrambe le parti.
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