lunedì 16 gennaio 2017

Questione di prospettiva

A volte esiste uno strisciante pessimismo all’interno delle nostre comunità cristiane riguardo il fenomeno religioso e la salute della fede, spesso il tutto si fonda su presupposti che sono più pregiudizi diffusi che non frutto di una riflessione attenta di quanto capita; quando poi il discorso verte su temi che riguardano i giovani, ci troviamo ancora più esposti a questo rischio.
Mi ricordo di aver partecipato a un consiglio pastorale nel quale, giustamente, si è dato a tutti la possibilità di esprimersi sulla “salute” della parrocchia; la maggior parte degli interventi si sono situati all’interno di una logica di rimpianto del passato che non c’è più e delle cose che ora non vanno. Non metto in dubbio la verità di quello che veniva detto, ma ne sottolineo la parzialità che porta a trarre conclusioni errate sulla situazione reale. È vero che la situazione non è più quella di una volta, ma il principio che sia “peggiore” condiziona la lettura del dato sociale, tanto che in pochi hanno evidenziato i numerosi cambiamenti positivi avvenuti in seguito al formarsi di una nuova unità pastorale fra più parrocchie.
Un’analisi che parte e si ferma al “contare” le presenze a un evento o l’accesso a certi passaggi iniziatici, non è capace di esprimere adeguatamente il reale sentire della gente. Eppure quante volte mi trovo insieme a preti, anche progressisti, dai quali ti aspetteresti un’ottica diversa nel guardare al mondo, invece li trovi che discutono intorno a quanti bambini in meno hanno battezzato rispetto la media, ai matrimoni civili in rapporto a quelli in chiesa, al confronto fra i dati delle persone defunte fornite dall’anagrafe del comune rispetto alle esequie religiose celebrate presso le proprie comunità. Per non parlare dei tanti operatori pastorali o genitori che chiedo quanti sono i ragazzi di un gruppo e fermandosi lì valutano la salute e l’efficacia di quel loro incontrarsi; pur condividendo l’importanza del trovarsi insieme e della bellezza di essere in tanti, credo che ci siano anche altri fattori che possano fare di un gruppo numeroso una realtà poco in cammino e così di un gruppo piccolo un qualcosa invece di fervente, vicina alle ricerche dei singoli membri.
Il mio suggerimento non è di chiudere gli occhi o di tacere gli interrogativi o problemi che si pongono di fronte a certe situazioni di epocale cambiamento rispetto a quanto eravamo abituati prima, ma quello di uno sguardo più ampio che si può fondare solo su un dialogo onesto intra generazionale.
Troppo presto ci apprestiamo a scrivere testamenti funebri di una Chiesa senza tenere conto della voce di due protagonisti centrali delle vicende del mondo, ossia Dio e i giovani.
Occorre come Chiesa che rimettiamo al centro del nostro presente la presenza di Dio e non la sua assenza, la speranza nei giovani invece che una sorta di latente lamentela sullo stato delle cose.
Nella vita si può decidere di camminare guardano indietro o avanti, io preferisco questa seconda modalità. Pensando all’impegnativo e bel servizio di educatore accanto ai giovani, credo che questa mia scelta di impostazione mi chieda di gridare a tutti la grande opportunità che è posta nelle nostre mani: quella di far sì che proprio questi nostri ragazzi, dei quali non si parla sempre molto bene, possano diventare nella Chiesa e per il mondo non solo credenti “anonimi”, ma protagonisti di una nuova epoca per la fede nel Dio portato a noi da Gesù.
Il compito sembra difficile, in tanti non vedono in loro il necessario per far questo, ma più il fuggire dalla dimensione delle fede; a volte i sospetti corrispondono a realtà, ecco allora il compito di favorire l’incontro con il vero volto di Dio, troppe volte rimasto quello dell’infanzia o costruito su preconcetti diffusi nella società, se non addirittura attraverso una non corretta opera da parte di noi adulti. L’impegno può stare quindi nel cercare di dare senso all’incontro con Dio, come un qualcosa che riguarda la vita, la ricerca di felicità e i sogni grandi che si portano dentro. Questi nostri ragazzi sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, forse ci possono contagiare in questo stile affinché la Parola possa trovare linguaggi, messaggi e vie di annuncio oggi non conosciute. Eppure tutto questo a volte mi sembra che faccia un po’ paura a tanti di noi che preferiscono mantenere il dato acquisito della fede piuttosto che esporsi alla necessità di un continuo stato di conversione che ci viene chiesto dal mondo che cambia. Mi chiedo a volte se, come Chiesa, non cogliendo le nuove sfide del mondo di oggi e rimanendo guardinghi verso le novità portate dai giovani, rischiamo più che di perdere i giovani di perderci noi.
Cosa spero? Che si ascoltino i giovani. Il papa ha indetto un prossimo sinodo su di loro, occorrerà molto impegno perché non sia la ricerca di un auto trionfalismo di una Chiesa dalla quale ormai si sentono lontani, ma il sintonizzarsi con tutti e non solo con i pochi “buoni” rimasti. Se si vogliono fare le cose per bene occorrerà tempo per incontrare soprattutto chi fa più fatica ed è ancora molto in ricerca, chi non parla i nostri linguaggi, non vede sempre bene i nostri modi di fare.
Ma siamo disposti a fare questo ed altro? Lo dico perché tanto se ne parla, diverse e molteplici sono le ricerche e le indicazioni che vengono dalle scienze umane quali psicologia e sociologia insieme anche alla teologia pastorale, lo vi vede e lo si sa cosa i giovani cercano, così del resto esiste una tradizione spirituale propria del cristianesimo ricchissima e capace ancora oggi di incontrare le ricerche profonde delle persone. Eppure siamo bloccati, quasi incapaci di comunicare la bellezza che abbiamo fra le mani e che freme di incontrare la storia di tanta gente in attesa.
Si tratta di andare incontro, per far ciò occorre però lasciare qualcosa del come si è sempre fatto fino ad ora, eppure lo si tarda a fare; così con una mano ci sporgiamo per andare incontro, ma l’altra è ben salda e non mollo quello che già abbiamo e che ci rende sicuri, succede così che non ci si riesce a sporgere più di tanto, né prendere il largo per andare verso chi ci aspetta.



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