lunedì 11 gennaio 2016

Sperimentare Dio

Un giorno, durante un incontro quasi casuale con una ragazza, così come un regale che arriva inaspettato mi chiede se può raccontarmi un periodo importante della sua vita. Mi disse che si era allontana dalla fede, tutte quelle cose che gli avevano raccontato su Dio, non erano più convincenti, e le aspettative e i sogni fatti da bambina avevano lasciato il posto a ben più reali riflessioni.  Sapeva che Dio esisteva, ma qualcosa non tornava delle tante cose che le avevano dette e di come ora le percepiva dentro di sé, attraverso le proprie ricerche di senso della vita. Un po’ per abitudine, un po’ perché spinta continuò a frequentare gli ambiti della parrocchia, ma la noia era la sua principale compagnia di avventura. Un giorno le venne chiesto di aiutare a fare catechismo a un gruppo di bimbi di seconda elementare. Non c’era niente di male, altre sue amiche ci avevano provato così accettò. Non si aspettava nulla di nuovo se non di occupare altro tempo della propria vita sottraendolo alla monotonia di ogni giornata uguale a quella precedente.
Si fermò un attimo, cambiando tono di voce mi raccontò di come quella scelta risultò determinante per la propria vita. Pian piano si riavvicinò alla fede. Quelle parole rimaste sbiadite nella propria infanzia ora risplendevano di luce diversa, diceva ora di cominciare a credere non tanto per delle cose ascoltate, ma perché vedeva nel servizio fatto ai bambini il realizzarsi di quelle parole alle quali lei non aveva mai dato retta veramente fino in fondo, mentre ora le vedeva compiersi concretamente in quello che le capitava nella vita, in particolare nello stare con i piccoli.
Credo siano tanti gli adolescenti che vivono situazioni simili a questa, che presto hanno preso le distanze dai luoghi e dai linguaggi della fede tipici dell’infanzia. Non è semplice capire come Dio opera dentro e attraverso di noi, non è banale tenere in contatto quanto ci si aspetta da Dio e dalla Chiesa con la propria vita; ancora meno è semplice portare il peso di tante domande e dubbi spesso giusti ma che non per questo diventano comodi compagni di strada. Così tante domande. Cosa c’è di sbagliato in me? Cosa non capisco? Ma davvero è così? Sì o no?
In quel tempo, Giovanni chiamati due dei suoi discepoli li mandò a dire al Signore: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Venuti da lui, quegli uomini dissero: «Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”». 
In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Lc 7,19-23
Giovanni si trova in prigione, non può recarsi di persona da Gesù, quindi manda due dei suoi discepoli. La questione al centro è se Gesù sia o meno quello che si dice in giro di lui, quello che comincia pian piano anche a emergere dai suoi discorsi. Giovanni è in difficoltà, spiazzato, qualcuno stava aspettando un liberatore armato e potente, ma Gesù non realizza questo modo di essere Messia; altri si erano fatti una idea che sarebbe stato un’anima forte, severa, composta, che non la sta a raccontare più di tanto, ma va giù spedita, solo che anche questo modello non riassume l’opera di Gesù.
Giovanni e i suoi discepoli si erano preparati per accogliere il Messia, ora facevano fatica a riconoscerlo, le parole che tanto avevano usato sembrano ora volteggiare per aria senza calarsi in una realtà concreta.
Questi due discepoli vanno e pongono la domanda fatidica: ma sei o non sei tu? Gesù sembra non rispondere, si mette infatti a fare del bene ai tanti che spesso riempivano le sue fila. Solo dopo che ha fatto questo invita i due emissari a ritornare da Giovanni, non per dare una risposta, ma per raccontare quello che hanno visto. La risposta non è teorica, astratta, ma concreta, cioè il racconto di quanto Gesù opera. Così succede che i suoi gesti sostengono le sue parole e viceversa.
Nel dialogo a distanza tra Gesù e Giovanni di compie il confronto tra il nuovo e il vecchio, fra quanto sapevamo e quanto sperimentiamo ora, un contraddittorio spesso portatore di crisi in tanti nostri ragazzi. Gesù credo possa diventare, lì dove è incontrato nel fare esperienza, la cura per i tanti problemi comunicativi che ci sono oggi fra le diverse generazioni. Stando con lui si torna capaci di udire, di vedere, ci si sperimenta guariti; capita che quasi all’improvviso ci si ritrova capaci di ascolto, capaci di Parola.

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