martedì 18 agosto 2020

Siamo l’esercito dei Selfie…

Così si cantava durante l’estate di qualche anno fa, gli autori sottolineavano la differenza tra una esperienza reale e virtuale delle cose, non tanto per giudicare ma per dire che sono cose diverse. Denunciavano che abbiamo tanti contatti in rubrica, ma manca il contatto fatto di incontri e abbracci… qualcosa manca, tu mi manchi.

Da quell’estate di pochi anni fa, dai selfie si è passati alla nascita degli youtuber, alle storie su instagram, le live, i tiktoker; sotto c’è la stessa ricerca e significati simili, il tentativo di documentare in tempo reale la vita del protagonista, non nasce con fini secondi o commerciali, è che anche il privato ora è esposto, è social. Può essere usato per sviluppare, far crescere e realizzare il Sé. 

C’è bisogno dello sguardo dell’altro per capire chi sono, uno sguardo che mi apprezzi e che dica quanto valgo, per vincere la paura di non essere visti, di essere dimenticati, di non esistere. Di per sé in questo non c’è niente di male, fa parte di un cammino evolutivo che ha i suoi tempi, la sua età e chiede i suoi spazi. Diverso è quando la cosa assume i caratteri estremi che da una parte portano a situazioni nelle quali mi vado a mettere in pericolo, dall’altra all’assenza di esposizione bloccati nella paura di mostrare il proprio corpo in quanto si è sicuri che esso non valga.

Rassicurando il mondo adulto, sottolineo che all’interno di questi due estremi, c’è tutta una serie di atteggiamenti che hanno un valore evolutivo, di crescita. Si sperimenta, ci si mostra, anche così si costruisce la propria identità. Postare selfie di prova in rete, video e altro, prepara all’incontro reale con i coetanei. Lo sguardo di ritorno del gruppo dei pari, misurato con like e followers, affina le proprie competenze nella cura del sé corporeo. 

Normalmente quando parlo di queste cose con gli adulti trovo una levata di scudi, qualcuno mi accusa di stare solo dalla parte dei giovani e di difenderli a tutti i costi accettando supinamente quanto accade, poi il fatto che io sia un prete viene usato per sottolineare che da me ci si aspetterebbe una diversa presa di posizione.

Non si tratta di difendere nessuno e neanche di fare discorsi astratti estranei alla realtà. Occorre essere onesti, la società narcisistica in cui sono cresciuti bambini e ragazzi è stata promossa e sostenuta dagli adulti, dietro all’uso economico e alla monetizzazione del mondo social ci sono sempre adulti il cui fine primario non è quello del sostenere, ma piuttosto sfruttare. Con ciò non voglio dare la colpa a nessuno, ma almeno inquadrare la cosa per una valutazione più oggettiva che salvi i giovani da nostri pregiudizi non fondati.

Pertanto ritengo sbagliato censurare gli adolescenti e i loro comportamenti quando in nome del bisogno di conferme secondo questo mondo che gli abbiamo costruito intorno, decidono di esporre socialmente il proprio sé con un pudore cercatemene diverso di quello che era il mio alla loro età. Bisognerebbe piuttosto pensare ad un’operazione di controcultura, a creare alternative, luoghi dove sperimentare altre modalità rispetto la società società dell’apparire, del successo e della ricerca della popolarità al di là di ogni limite.

Credo che il mondo ampio dell’associazionismo giovanile abbia in sé questa potenzialità, nel riunire e far stare insieme, nel dare la possibilità al corpo di esporsi con altri criteri e sapendo coinvolgere anche chi fa più fatica o è in ritardo nello sviluppo. In particolare penso alle nostre parrocchie e movimenti giovanili all’interno della Chiesa, occorre che siano accoglienti e si ripensino, non rifiutando a priori certe modalità espressive, ma invitando a confrontarsi con nuove (o a volte vecchie) esperienze: vite comunitarie, esperienze di servizio, animazioni di eventi, luoghi di incontro aperti, laboratori di espressività, opportunità di far parte di un gruppo… 

Rappresentano tutte occasioni non per entrare in concorrenza con le altre, non per escludere e selezionare i migliori secondo i nostri criteri, ma per integrare, indicare una via diversa, sostenere in modo nuovo una ricerca giusta espressa in altri modi.

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