domenica 10 aprile 2016

Una generazione di orfani

Ho incontrato una amica religiosa che fa parte di un istituto nato per prendersi cura degli orfani, mi raccontava di come ormai le loro attività fossero quasi esclusivamente rivolte ai paesi di missione. Oggi in Italia, per fortuna, questo fenomeno è enormemente diminuito rispetto al passato, inoltre la nostra legislazione porta avanti più progetti su singoli o piccoli gruppetti, che non strutture quali gli “orfanotrofi” di una volta.
In altre parti mi è già capitato di parlare del fatto che stando in oratorio, sono stato spinto a riflettere su un nuovo tipo di orfani: ragazzi che hanno genitori, ma vivono una vita abbandonata a se stessi. Si trovano così a gestire in proprio, fin da piccoli, tante cose: tempo, soldi, cibo, compiti; senza vere figure adulte di riferimento, crescendo così poveri dal punto di vista relazionale e indicazioni concrete su come si fa a diventare grandi.
Anche papa Francesco di recente ha parlato di questo tema durante uno dei suoi discorsi[1] definendolo con il termine di “orfanezza” (dallo spagnolo “orfandad”). Sottolinea come i giovani di oggi vivano questo disagio perché non hanno maestri che mostrino loro un indirizzo sicuro di vita, così rimangono vuoti di ideali che possano animare e rendere calda la vita, fanno così molta fatica a portare avanti le difficoltà di ogni giorno. Nonostante questo, dentro di loro, rimane presente, anche se come assenza, la ricerca di tutto ciò.

Mancano di gratuità, quella che viene da chi sa perdere tempo per loro, per stare insieme, per giocare, per aspettarli, per rompere un po’ le scatole. Questo incide molto sulla loro capacità di donarsi a propria volta e di riconoscere di esserne destinatari da parte di un Dio della sua Grazia che è qualcosa di totalmente gratis che non si può comprare da nessuna parte: Dio stesso.
Di fronte questo, troviamo in Gesù una soluzione alle tensioni che posso nascere.  Non vi lascerò orfani: verrò da voi (Gv 14,18), lo fa presentandosi come maestro che insegna una via, dando la vita sulla croce, ci ricorda che abbiamo un Padre. Lo ritengo un bell’annuncio per i tanti giovani di oggi, insieme a quelli che ricordavo sopra, lo penso anche per i tanti che non trovano un lavoro sentendo così di valere poco.
Tutto questo diventa un incoraggiamento anche per noi adulti, troppe volte diciamo un po’ alla leggera di amare i nostri ragazz,i senza renderci adeguatamente conto di quanto questo comporta. Così capita che alla gratuità opponiamo ricatti affettivi mettendo delle condizioni al nostro amore, o ricordando loro quando abbiamo dovuto fare così che si sentano in debito. Mentre i giovani cercano semplicemente qualcuno al quale poter andare bene così come sì è, anche sgangherati, senza che venga chiesto di cambiare prima di poter voler loro bene. Mi capita così di incontrare adolescenti che non vanno bene a nessuno, così divento triste quanto scopro che cominciano a farsi da soli del male tagliandosi o non mangiando, perché proprio quel loro corpo è vissuto come non capace di essere amabile.
Ma anche in questi momenti mi viene da ricordare loro che non sono orfani, che c’è un Dio che si preoccupa di loro, perché li ama, e che occorre mettersi alla ricerca. Anche nella Chiesa, nelle nostre comunità, devono poter sapere di avere una Madre che si occupa di loro quando ne avranno bisogno. Occorre quindi attrezzarsi e diventare consapevoli di questa vocazione, che nasce dalle contingenze del momento presente con l’incontro di tanti giovani che stanno cercando.
Per far questo occorre riscoprire la dimensione dell’accoglienza; non è possibile che quando vengono da noi giovani “orfani” o comunque in difficoltà, apriamo loro le porte per poi sgridarli perché non sanno adeguarsi a un modo di vivere che forse solo per noi è scontato,  così è come se dicessimo che devono pagare qualcosa per poter essere accolti. Così non si sentiranno mai a casa.
Dobbiamo ripensare quanto le nostre parrocchie sono accoglienti, se gli orari delle attività favoriscono la partecipazione dei giovani, se siamo capaci di parlare i loro linguaggi, di cogliere anche negli altri ambienti (come ad esempio nello sport, nelle nuove tecnologie) le possibilità per annunciare il Vangelo. Diventiamo audaci nell’esplorare nuove modalità con cui le nostre comunità siano delle case dove la porta è sempre aperta. La porta aperta! Ma è importante che all’accoglienza segua una chiara proposta di fede; una proposta di fede tante volte non esplicita, ma con l’atteggiamento, con la testimonianza: in questa istituzione che si chiama Chiesa, in questa istituzione che si chiama parrocchia si respira un’aria di fede, perché si crede nel Signore Gesù[2].




[1] Cfr. Papa Francesco, Discorso ai partecipanti al convegno diocesano di Roma dedicato al tema “Un popolo che genera i suoi figli, comunità e famiglie nelle grandi tappe dell’iniziazione cristiana”, 16 giugno 2014.
[2] Papa Francesco, Ibid.

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