Un giorno una madre venne a raccontarmi di una vera
guerriglia che si era scatenata in casa durane una discussione che era
diventata contrapposizione tra suo figlio e il padre. Il tutto nasceva da una
cosa che diceva essere stupida, il desiderio del figlio di andare insieme ai
suoi amici a un concerto, il netto rifiuto da parte dei genitori difeso in modo
forte dal padre venne accolto con il tentativo prima astuto e poi forzoso del
figlio di prendere la via dell’uscita, la cosa non riuscì e dopo una serie di
lacrime e parole che il figlio sviolinò ai genitori che fecero sentire in colpa
la madre, il tutto finì con la scomparsa del ragazzo dietro la porta sbattuta
della propria stanza accompagnata da quello che era stato appena constatato:
“Voi non capite niente!”… il tutto detto con una calma e una precisione che
lasciò tutti di stucco.
Non voglio entrare nel merito del caso specifico anche
perché sono poche le cose che ne sappiamo, inoltre il tutto mi sembra che
richiederebbe un analisi a respiro più ampio riguardo a come si è arrivati al
compiersi di un tale scenario. Ugualmente non posso far a meno di prendere
seriamente l’uscita del figlio prima di scomparire dietro la porta sbarrata
della propria stanza: cosa non capiamo dei nostri ragazzi?
La risposa non è semplice, infatti non capiamo quanto però
anche loro faticano a dire con parole chiare, quanto forse neanche a loro
risuona limpido e sereno; non capiamo che a una certa età dell’adolescenza per
loro risulta importante sacrificare parte di sé per entrare a contatto con il
proprio cantante preferito o sportivo o modello… e l’importanza di farlo
insieme agli amici ai quali si è legati da un vincolo quasi di sangue tanto da
essere considerati fratelli.
Il problema è serio, i genitori giustamente difendono alcuni
criteri di riferimento importanti della vita del figlio: la scuola, il riposo,
la sicurezza, le regole…; anche il ragazzo difende giustamente quanto gli è
necessario in questo suo cammino di individuazione e socializzazione. La
fedeltà al proprio compito educativo porta inevitabilmente a uno scontro, visto
che ora parliamo di noi educatori adulti, preferisco concentrarmi su si noi.
Occorre che capiamo che per i nostri ragazzi un calciatore può non essere solo
un calciatore, che una canzone non è solo una canzone, che un amico non è solo
un amico, che la ragazza non è solo una ragazza… il tutto è inserito dentro a
un vincolo affettivo che chiama in causa tutta la persona.
Qualcuno potrebbe obiettarmi, come fece durante un incontro
un padre: chi ha ragione noi adulti o loro? Insomma è più importante la scuola
o un concerto? Pur comprendendo il ragionamento fatto sottostante la domanda,
mi sento però di esprimere il fatto che essa esposta in tal modo ci porta fuori
strada, la questione non è nell’ottica di cosa conta di più (ragionando così
rimaniamo al punto di prima, quello della contrapposizione) ma il rendersi
conto che certe cose valgono in maniera “diversa” a tal punto che non sono
confrontabili, come dire: è più buona una torta o pesante un sasso? È normale
quindi che ragionando così arriviamo a non capirci, occorre quindi riconoscere
che sono istanze diverse, già il tenere presente questo ci può essere di aiuto.
Con questo non voglio dire che non possiamo dire niente al
riguardo, anzi, l’educatore ha il compito di rispondere ai propri ragazzi basandosi
sulla conoscenza che ha di essi; basando le proprie decisioni proprio su questo
comunicare loro di ritenere di aver capito abbastanza per prendere questa o
quella decisione che si ritiene come il meglio per la loro crescita. Tutto qua?
No, questo è solo la comunicazione relazionale, il tutto prevede anche un
impegno nostro a chiedere, informarsi, cercare di conoscere, parlare, infatti
le cose spesso sono più complesse di quello che sembrano e come educatori
abbiamo veramente bisogno di capire certe cose, questo non toglie però
legittimità all’intervento educativo e alla necessità di farlo, mettendo anche
in conto che non sempre è necessario che ci sia incontro tra educatore e
ragazzi, nella relazione c’è spazio anche per lo scontro (sempre entro certi
limiti).
Del resto l’incomprensione ha toccato anche il gruppo di
Gesù, leggiamo infatti nel vangelo di Giovanni (6,66-69): Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non
andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: "Volete andarvene anche
voi?". Gli rispose Simon Pietro: "Signore, da chi andremo? Tu hai
parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di
Dio".
Anche Gesù vive momenti di contrasto con i suoi discepoli, chi
rimane lo fa non per timore o obbedienza a una autorità superiore, ma perché ha
scoperto che quel maestro di nome Gesù li ha chiamati per nome e li ha
conosciuti personalmente, perché è riuscito a creare un gruppo che dalla
diversità di ognuno tira fuori la comunione di tutti, perché stando insieme c’è
qualcosa di cui non si può fare a meno.
Ci crediamo che le nostre famiglie, i nostri gruppi,
noi come educatori, abbiamo la possibilità di dare parole di vita per i nostri
ragazzi? Crediamo che anche nella fatica del nostro ruolo educativo continuiamo
a dar vita non solo facendo nascere i figli alla vita ma educandoli alla vita e
alla fede?
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