lunedì 28 gennaio 2019

Gruppi e gruppo in adolescenza

Quando si parla con gli adulti, della loro vita, delle difficoltà e gioie, difficilmente si dedica tempo a parlare delle proprie relazioni amicali. Piuttosto i temi sono: lavoro, famiglia, passioni. Questo dice anche spesso della fatica di un adulto ad avvicinarsi con empatia e comprendere, l’importanza che ricopre per un adolescente sentirsi parte di un gruppo di amici liberamente scelto: gruppo informale dei pari.
I ragazzi fra i dodici e i diciott’anni, anche se può sembrare diversamente, sono degli affamati di relazioni e in costante ricerca di amici. L’amico è per loro necessario per capire chi si è, ci deve essere. Altrimenti? Si rischia di rimanere in attesa nella vita e certe cose non farle mai, non si trova la voglia. Per vivere si aspetta l’amico, uno “simpatico”, termine che i ragazzi traducono in modi diversi e variopinti, rimane comunque colui del quale non mi interessa primariamente la bellezza, la bravura, la ricchezza, o cose del genere, ma la cui vita risuoni in consonanza con la mia. Sì proprio come uno strumento musicale che suonato insieme agli altri ti rendi conto se è accordato o meno allo stesso tono.
Se dovessimo chiedere a un ragazzo perché ha scelto di far parte di un gruppo e proprio di quello, la risposta sarà circa la seguente: perché mi trovo bene, mi sento a mio agio, siamo uguali tra noi, c’è intesa.
Sto parlando qua di quei gruppi definiti “informali” nei quali la partecipazione avviene per elezione reciproca, per scelta, con la partecipazione di entrambi i sessi. Capita quindi che vi possano essere anche delle “esclusioni, fenomeno credo non debba essere eccessivamente enfatizzato, ma compreso all’interno della fase specifica evolutiva tipica dell’età, essa avrà poi una sua evoluzione. Sta di fatto che una selezione esiste, essa non avviene solo da parte degli appartenenti nei confronti di chi vi ci voglia far parte, ma anche chi volesse entrare a un certo punto si accorge se quel gruppo fa per lui oppure no, portando quindi a un’autoesclusione.
Al suo interno si sviluppano fenomeni che portano a un certo “conformismo”, ma sarebbe un errore considerare come passivo l’apporto di ciascuno dei membri, così come il ritenere che in causa ci siano solo questioni affettive e non anche cognitive, il tutto volto anche a fenomeni di differenziazione che aiutano in singolo all’individuazione della propria identità.
Questi gruppi sviluppano una vera e propria personalità, ossia sono non sono la semplice somma dei pensieri, decisioni, emozioni dei singoli, ma il gruppo in sé arriva ad averne.
Dall’altra parte della barricata ci sono i gruppi organizzati (istituzionali), hanno la caratteristica di essere di libera adesione senza selezione anticipata, riguardano tutto il mondo delle varie organizzazioni in campo giovanile fra le quali anche i gruppi parrocchiali, vi è la presenza di una figura guida (spesso adulta) che dà regole riguardo l’interazione del gruppo al proprio interno, è capace di favorire processi d’identificazione verso ideali e valori proposi dall’esterno. Al suo interno capita normalmente che si possano formare dei sottogruppi attraverso processi di differenziazione, caratterizzati da legami di amicizia, così da far sì che un gruppo istituzionale possa avere al suo interno uno o più gruppi informali, con la presenza anche di singoli con appartenenze invece ad altre realtà terze. La difficoltà e ridondanza dei termini nel spiegare la cosa, indica anche la complessità a entrare dentro dinamiche dove livelli di relazioni e rilevanza si incrociano fra di loro.
Tutto questo mi capita di vederlo nei nostri gruppi parrocchiali, credo anche che una maggiore attenzione al senso del vissuto relazionale degli adolescenti ci aiuterebbe meglio a capire certi fenomeni, a dare un volto diverso all’abbandono post sacramenti, alla fatica a costruire gruppi, all’impegno mediato di educazione da una fraternità più ampia che deve fare i conti con i forti legami di amicizia e di scelta reciproca che occupano la vita dei nostri ragazzi che seguono logiche non stringentemente evangeli, comunque ancora in crescita e maturazione verso un di più di cui dobbiamo farci annunciatori e lenti costruttori.
Altro fenomeno che caratterizza il nostro vissuto pastorale relativamente recente, è la nascita delle Unità Pastorali, formate da più parrocchie affidate a uno stesso parroco, esse non sono riconducibili a un unico modello dipendendo da molti fattori che le costituiscono come tali. 
Capita spesso di arrivare alla scelta, per necessità o convenienza, di decidere di rivedere la distribuzione e l’organizzazione dei gruppi giovanili secondo il camminino cominciate dalle comunità. Arriva così il momento del non sempre facile confronto dei gruppi fra di loro.
Facilmente i gruppi parrocchiali di adolescenti, quelli che durano e resistono al tempo e alle ricerche intime che portano tanti a lasciare la casa del padre in stile “figlio prodigo”, sviluppano al proprio interno dinamiche di amicizia come un po’ sopra riportato. Così che quando arriva il momento di unire dei gruppi, il desiderio di farli incontrare può diventare un’evidenza di averli portati a scontrarsi.
Quando gruppi diversi di avvicinano tra loro, si ha una riduzione delle differenza interne che porta ad aumentare quelle esterne. Il processo interno fa in modo di aumentare l’unità tra i membri e la sopravalutazione dei valori e degli ideali che informalmente ci si è dati. Questo può portare alla nascita di una conflittualità infragruppo che neutralizza i nostri tentativi di unione o incontro e dialogo tra gruppi diversi. La cosa si accentua ulteriormente quando gli obiettivi che proponiamo loro sono in conflittualità con quello che cercano o ritengo di ave bisogno. Per quanto le nostre motivazioni possano essere legate a una necessità non evitabile o a valori evangelicamente orientati, le cose possono tranquillamente non funzionare. Nasce una percezione negativa reciproca, che crea solidarietà interna e opposizione esterna.
Cosa fare? Un tentativo può essere quello di riuscire a trovare scopi comuni, percorrere la strada di un compito cooperativo capace di ridurre le ostilità, così da far nascere rapporti positivi, sperando che ciò contribuisca all’integrazione graduale delle personalità dei gruppi. Non date per scontato che la cosa sia così semplice come descritta. Unire gruppi diversi è quindi sempre un’incognita, di fronte a chi la vede sempre come una cosa buona, io pongo diversi punti interrogativi, spesso non compresi soprattutto dai genitori.
Giusto a conclusione del tutto vi posso narrare due storie: una di insuccesso e l’altra di parziale successo.
Siamo nel periodo di preparazione alla GMG, è parso bene di coinvolgere i due gruppi, che per via dell’età della proposta, sono i destinatari preferenziali della cosa. Alle spalle hanno storie diversi, sensibilità cresciute in parrocchie da poco unite fra loro, età parallele, poche conoscenze fra loro. Il cammino viene condiviso tra i rispettivi educatori, già alcuni incontri di preparazione mostrano le diversità in campo. Proviamo a mettere il gemellaggio, la meta della GMG, il comune cammino come fondamenta di qualcosa di nuovo. Succede però, che né il viaggio fatto insieme, né le esperienze e parole ascoltate aiutano, anzi si crea una distanza sempre più accentuata. Passati diversi anni, provate altre cose, maturate altre scelte, l’incontro e l’integrazione ancora non è avvenuta, se non da parte di alcuni, ma che ha fatto sì di accentuare ulteriormente la specificità di ciascuno di essi. Non butto la spugna, si continua a provare, a invitare, a pregare. Si aspetta anche che il cammino di fede e umano di ciascuno porti a un dunque.
La seconda storia ci porta a due gruppi con un anno di differenza fra loro, stessa parrocchia, stili un po’ differenti come è normale avendo educatori diversi. Fra loro si conoscono, hanno condiviso anche il sevizio di animatori al Grest, mantengono però frequentazioni diverse molto caratterizzate dall’appartenenza al proprio gruppo. In vista del campo estivo, si decide di fare ad entrambi la stessa proposta, che quindi li porterà per una settimana condividere viaggio, attività, mensa, stanze, preghiera, riflessioni e tutto quello che ne segue. L’obiettivo concreto dell’esperienza facilita il lavoro fra loro, non che tutto sia stato semplice, ma pian piano si fanno esperienze per gruppi misti, si discute insieme e via così. Viene quindi giudicato come un successo. La stessa cosa si ripete anche nella due estati successive, sempre con un discreta collaborazione che sembra migliorare. Nel frattempo ciascuno continua durante l’anno il proprio cammino. Si arriva però al momento, guidato dalla necessità, di unire i gruppi. Quello dei più grandi (con una maggiore coesione) accoglie la cosa (non che ne siano stati entusiasti), dai più piccoli si staccano alcune figure che per via di frequentazioni simili hanno maggiori legami e saltano su abbastanza alla svelta. Gli altri, visto il “morire” del gruppo, perdono di motivazione al continuare il cammino e nell’investimento di nuove forze necessarie per la costruzione di qualcosa di nuovo. Il tentativo di proporre loro altro finisce in nulla.
Lo scioglimento di uno dei gruppi, chiama in causa anche la via con la quale un adolescente si sente parte della Chiesa, della comunità: è la via del gruppo. Una modalità che con il tempo evolverà e troverà nuove espressioni, ma per ora credo proprio che sia così. Mi fermo però qua, il resto si vedrà.
Quanto ho scritto è per cercare di capire meglio, entrando dentro i perché i nostri adolescenti hanno una tale fame e sete di amore vissuto nella forma dell'amicizia, come questo possa favorire o ostacolare quanto portato avanti dalla pastorale. Di ricette in tasca non ne ho, credo però che comprendendo meglio si posa decidere di incamminarsi insieme provando nuove strade.

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