martedì 19 marzo 2019

Preadolescenti

Come fascia di riferimento, per semplificare, farò riferimento agli anni delle scuole medie. Lo so: oggi non è più questo il loro nome. Eppure è un appellativo evocativo di una fascia d’età che rappresenta un po’ una terra di mezzo: non più bambini e non ancora adolescenti.
Un’attenzione specifica alle diverse età dello sviluppo delle giovani generazione, non è sempre esistita anche dal punto di vista delle scienze umane, ancora di più lo è per questa fascia  d’età di per sé “breve” rispetto ad altre e quindi non sempre adeguatamente sostenuta. Il primo passo e quindi quello di riconoscere che essa ha di fatto un proprio posto specifico all’interno della riflessione più ampia dell’età evolutiva.
Da prete, impegnato come educatore e testimoni in mezzo ai ragazzi, credo che sia necessario conoscere e usare le conoscere inerenti questa tempo di vita, così da riuscire a interpretare meglio i tanti cambiamenti (anche in rapporto alla fede e all’appartenenza alla comunità cristiana) ai quali quotidianamente si assiste.
In così pochi anni i cambiamenti sono veramente tanti senza avere ancor un orizzonte capace di dare nuove certezze, un’età che passa “veloce” e proprio per questo intensa e delicata. Tutto viene messo in discussione, senza per questo arrivare ancora a nuove affermazioni. Un’età spesso silenziosa e fatta di silenzio, anche per questo difficilmente interpretabile, che vede però grandi “abbandoni” del vecchio per qualcos’altro non ancora definito: famiglia, corpo, punti di riferimento, amici, scuola, Dio, parrocchia, umore, intimità… tutto questo e tanto altro.
Questo suo bisogno di rivedere tutto quanto finora vissuto lo porta a mettersi sulle spalle quanto appreso e partire per un viaggio avventuroso (la crescita) durante il quale verificare se quanto gli è stato detto gli sta bene o no (quindi non tanto se sia vero o no, bello o brutto, buono o cattivo, tutti riferimenti che spesso mettiamo alla base dei nostri cammini di fede e che non è detto siano vicini ai canoni senti e usati dai ragazzi). Ecco allora tutto l’impegno ad aiutarli a far buon uso delle emozioni e dei pensieri che affollano la loro mente.
A volte le nostre strategie educativo sono troppo spostate sul versante dei contenuti, come se di per sé fossero in automatico assunti, così come mi diceva una volta una anziana signora: perché non capiscono, è scritto molto chiaro! Così era stato messo un bel cartello che avvisava del tutto, senza che questo avesse molta presa nei fatti. Infatti un pezzo di carta non è capace di mediare tutta quella intensità di rapporti umani che mostrano quanto teniamo a loro, un pezzo di carta non è capace di sostenere nella loro ricerca, non aiuta a vivere di pazienza in una ricerca comune del vero bene ora possibile.
È importante che ci siano le persone prima dei cartelli, mi spiace quando arrivati a quest’età diversi catechisti cominciano a dire di non essere più loro a dover portare avanti il cammino, ma è compito dei giovani “tirar su” i ragazzi. Non nego una più facile vicinanza e un “saperci fare” più capace di intercettare ciò che agli adulti può fuggire. Ma è proprio ora che c’è bisogno di noi, di figure adulte significative, impegnate, attente, pazienti, presenti fisicamente accanto loro. Oggi questo rappresenta sicuramente uno dei tasti dolenti della vita delle nostre comunità, un’ipoteca messa sul successo dell’evangelizzazioni delle giovani generazioni e sul nostro ruolo di testimoni adulti di Gesù.
Quando ragioniamo sul rapporto tra preadolescenti e fede, alla ricerca di un modo perché possiamo comunicare e loro possano esprimere una “spiritualità” vicina alla loro età, occorre un’analisi che non solo tenga presente quanto ci viene consegnato dalle varie teorie dello sviluppo, ma anche considerando che lo sviluppo del cervello (penso in particolare alla capacità riflessiva) non è ancora sufficientemente maturo rispetto a come tante volte noi adulti ci aspetteremmo. Non si tratta chiaramente di mirare “più in basso” né di annacquare l’annuncio, ma piuttosto di tenere presente le loro fatiche che, diversamente da quanto spesso pensiamo noi, sono vere e proprie difficoltà al momento insormontabili, si tratta di continuare con tanta pazienza a sperare nelle loro possibilità di farcela. 
Non credo sia una novità per nessuno affermare che i tanti contenuti e credenze fatti propri nel periodo dell’infanzia, ora vengono messe in discussione. Emerge pian piano sempre di più uno spirito critico nei confronti di un po’ tutta la vita, ma soprattutto verso quanto ci si porta dietro dal mondo dell’infanzia (fede e pratiche religiose comprese).
Si comincia a riflettere su sé stessi e a immaginare soluzioni riguardo a quelli che ora sono problemi che nascono nella propria vita. Un ragazzo comincia l’avventura della conoscenza di sé stesso, non da solo ma attraverso progressivi rispecchiamenti anche da parte di chi incontra, tra questi maggior importanza è assunta dagli amici e dal gruppo. Proprio in questa prospettiva l’incontro con un Dio che ti conosce, che ti accoglie, che ha qualcosa di vero e bello da dire sulla vita, può avvicinare a questo importante compagno di viaggio o almeno esso può assumere un senso nuovo nel proprio percorso di vita, come di un punto di riferimento fisso in mezzo a tante cose che cambiano. Così anche il gruppo parrocchiale, pur nei condizionamenti che si porta dietro, assume una forte capacità di mediare valori sensati per l’individuo (nonostante ancora manchi di una scelta che possa definirsi personale).
Con uno sguardo più concreto possiamo dire che un ragazzo di questa età, cerca un modo di vivere la fede pratico e personale, cominciano a voler prendere da soli certe decisioni, sono molto aiutati a crescere attraverso testimonianza ed esperienze di servizio, sono forti cercatori di ideali di vita che possano mettere a fondo della loro percorso e contemporaneamente nascono tante dubbi che hanno bisogno da parte loro di essere detti sapendo che da parte nostra sono accolti e ascoltati. Sintetizzando: occorre trovare un equilibrato mix  di contenuti (che comunque cercano) e di esperienze.
Uno scatto maturativo in questa dimensione, avviene quando capita di poter incontrar persone, eventi, situazioni, luoghi dove i contenuti della fede sono non solo uditi, ma visti e sperimentati. Ciò che finora era stato solo narrato, prende forma e accade nella loro vita.
Come Chiesa questa fascia d’età un po’ ci spiazza, sono da poco stato a un ritiro con ragazzi di seconda media e devo dire che in alcuni momenti sembrava una “battaglia”. È una gioia avere l’oratorio pieno di bambini, ma se sono preadolescenti si salvi chi può, del resto aumentano anche i catechisti che si definiscono “non all’altezza” di proseguire il proprio cammino oltre l’età delle elementari. È un coro a diverse voci quello che si leva contro di loro: genitori, insegnati, catechisti, giornalisti.
Molto spesso, come capita anche con i giovani in generale, noi comunità adulta ci rapportiamo con loro un po’ a senso unico: noi siamo gli attori, loro i destinatari. È una nascosta convinzione, non a parole ma nei fatti, che loro non sono protagonisti e parte della Chiesa così come sono (come del resto siamo anche noi), ma che dobbiamo trasformali perché lo diventino. Questo modo di vedere le cose porta a tanta confusione e a grossi errori pastorali, oltre a essere un peccato contro lo Spirito che opera anche in loro e che così noi mettiamo a tacere.
C’è quindi da parte dei ragazzi, l’arrivare a percepire di non essere poi così importanti come invece si dice a parole. Da qui il prendersi su e andarsene è proprio dietro l’angolo. Ecco allora che la domanda vera, la convinzione profonda che deve muoverci come adulti non è cosa dobbiamo fare, ma come possiamo vivere anche con loro il nostro essere Chiesa.
Una comunità attenta ai ragazzi in difficoltà, è quella capace di interrogarsi quanto sia essa a metterli in difficoltà con il proprio modo di agire. Modi di fare assodati e che hanno fatto tanto bene, ma che possono correre il rischio di non essere più adatte all’oggi, insieme anche a un modo di relazionarsi percepito come rigido e non capace di interrogarsi in modo profondo sui fenomeni attuali. Nei tanti interventi nei quali ho coinvolto gli adulti, ho spesso sperimentato la difficoltà da parte loro di decentrarsi sui ragazzi sapendo rivedere il proprio modo di pensare e agire. È la capacità di “farsi prossimi”.
Per i nostri ragazzi, in questo loro periodo di vita, è molto importante trovare luoghi e modi di vivere che siano diversi da quelli finora vissuti in famiglia, per questo nasce il gruppo dei coetanei. Sapendolo, conoscendo queste istanze che la psicologia ci affida, esso per noi diventa via necessaria attraverso la quale passare se vogliamo che loro possano minimamente sentirsi parte della Chiesa e credere in essa. È così che il gruppo diventa non tanto occasione per altro, ma vero luogo teologico, può diventare Chiesa. Sono consapevole che essa non può essere limitata a tale evento umano, così come sia la fraternità e non l’amicizia a costituire il riferimento ultimo dell’essere comunità riunita intorno a Gesù, ugualmente affermo che per i nostri ragazzi esso sia luogo di appartenenza ecclesiale.

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